Tutti abbiamo bisogno di attenzioni, da quando siamo nati ricerchiamo ossessivamente l’attenzione dei nostri caregiver ma questa tendenza resta anche in età adulta. Il problema sorge non tanto in età infantile ma proprio da adulti, quando tendiamo a confondere la mera attenzione con la vera connessione. La differenza è semplice mentre l’attenzione è qualcosa che ricevi (quasi) passivamente la connessione è qualcosa che richiede la tua piena partecipazione ed il riconoscimento dell’altra persona in quanto essere umano di valore (quanto te)…

Connessioni

Siamo nati per essere in connessione, non solo per ricercare attenzioni, cosa del tutto naturale se pensiamo al fatto che noi esseri umani (al contrario della maggioranza degli animali) abbiamo necessità di attenzioni e cure per garantire la nostra sopravvivenza, per un periodo decisamente lungo. Questo compromesso della evoluzione, che ci consente di sviluppare molte delle nostre funzioni al di fuori del grembo materno è uno dei motivi per i quali l’attenzione del prossimo per noi è vitale. Ma non solo per noi, chiunque abbia letto gli studi di Harlow si ricorderà che anche i nostri cugini primati (e in generale i mammiferi) necessitano di tali attenzioni.

Ogni connessione nasce naturalmente dall’attenzione per questo se hai mai avuto a che fare con un bambino ti sarai accorto che brama costantemente l’interesse dei suoi caregivers (genitori o chi ne fa le veci). Il problema emerge crescendo nella nostra società super connessa, nella quale possiamo facilmente confondere l’attenzione per connessione. Un esempio paradigmatico è ciò che accade online con le persone che ci seguono e che seguiamo sui social. Un like è di certo un segno di interesse, di attenzione ma è molto molto lontano da essere una reale connessione.

Questa faccenda non accade solo online e le motivazioni possono essere diverse, la prima e moderna attuale riguarda la quantità di persone con cui abbiamo a che fare. Lo psicologo evoluzionista Dunbar ha coniato il famoso “Dunbar number”, secondo il quale, analizzando diverse tribù e società antiche, sembra che il nostro cervello sia progettato per interagire con circa 150 persone. Non tutte insieme e non tutte con lo stesso grado di intimità. In poche parole, anche se lavori in un’azienda con 2500 dipendenti, sei socievole e parli spesso con molti di loro, probabilmente intesserai reali connessioni con poco più di una decina di questi individui.

Io l’ho provato sulla mia pelle, non solo dal lato social ma sono stato in una casa dello studente per 5 anni, sempre la stessa con diversi ospiti a rotazione. C’erano 300 persone, alcune delle quali non le incontravi praticamente mai, mi è capitato di conoscere colleghi che mi hanno detto: “si ero al Copernico in quegli anni” ed io rispondevo sorpreso: “anche io, stessa casa dello studente ma come è possibile che non ci siamo mai incrociati?”. Ho avuto la fortuna di conoscere persone da tutta Italia e da tutto il mondo, con una quantità incredibile di stranieri.

Ancora oggi frequento alcune di queste persone, ma si possono letteralmente contare sulle dita di due mani. Ora tutto questo giro di antropologia, psicologia sociale e fatti miei, servono per indicare un errore che tendiamo tutti quanti a fare: confondiamo le attenzioni con le connessioni. Parto dal principio che spesso le attenzioni sono indispensabili per connetterci e che, in alcuni casi piccole attenzioni hanno effetti profondamente benefici secondo gli studi (ad esempio andare al bar, parlare con il cassiere del supermercato, ecc. sembra avere effetti protettivi sull’invecchiamento del cervello) ma quelle più intense, che sono anche quelle più difficili da mantenere hanno una marcia in più!

Le relazioni ci nutrono

La ricerca è abbastanza chiara su questo punto: puoi avere uno stile di vita sano, mangiare bene, fare movimento, esporti alla luce solare, prendere tutti gli integratori del mondo ma se non hai connessioni sociali potrebbe mancarti qualcosa di molto molto rilevante. Le motivazioni sono molte, per anni abbiamo visto solo quelle pratiche, se hai una buona rete sociale puoi essere più facilmente aiutato da chi ti sta attorno. Ma la verità è che le connessioni umane sono molto di più di un appoggio materiale (per quanto sia necessario anche questo) sono sistemi di co-regolazione emotiva fondamentali per la salute mentale.

Ad esempio, gli studi sul disturbo da Stress post-traumatico (il PTSD) hanno mostrato più volte che una rete sociale solida faccia la una enorme differenza. Pensaci, quando ti succede qualcosa di negativo la prima cosa che fai è cercare il conforto e in confronto con qualcuno. Secondo vari esperti le cose andrebbero più o meno così: succede qualcosa di traumatico, ciò attiva i meccanismi di emergenza (il sistema nervoso autonomo con il suo attacco-fuga), se qualcuno ci soccorre in tempo riusciamo più velocemente a ripristinare i sistemi della cura (il sistema parasimpatico).

Avere una persona accanto mentre proviamo dolore modula la risposta a quest ultimo, l’abbiamo visto mettendo le persone dentro le risonanze magnetiche e facendo loro provare piccoli dolori, tendendo o meno la mano di una persona cara. Insomma chi ci sta accanto ci aiuta a regolare (meglio co-regolare) il nostro mondo emotivo. Questo non succede solo con le emozioni (per così dire) negative ma anche con quelle positive. Immagina di prendere un bel voto ad un esame, vincere alla lotteria, cosa fai subito dopo? Scommetto che chiami qualcuno per farglielo sapere… a proposito, chi chiameresti subito?

Siamo talmente immersi nella relazione, la quale ci ha fatto letteralmente nascere e crescere, da dimenticarci della sua presenza. Ecco perché tendiamo a confondere l’attenzione con la connessione. Ti ho parlato di traumi perché spiegano bene cosa succede quando restiamo nello stato di minaccia, quando non stiamo bene, tendiamo a disconnetterci, prima dagli altri e poi da noi stessi! A quanto pare sembra che tale senso di disconnessione umana non sia esclusivo appannaggio degli eventi traumatici ma anche di una cultura attuale iper individualista, orientata solo al risultato personale, immemore del fondamento sociale che ci circonda.

In poche parole: il benessere attuale ci illude di poter vivere una vita solitaria, perché in fondo è molto più complesso, oneroso personalmente ed economicamente, coltivare reali connessioni sociali. Certamente la tecnologia ha un peso particolare in questo (e tra poco riprenderò questo tema) ma ciò che ci sta sotto è la mania attuale di evitare ogni cosa sia leggermente difficile, impegnativa, appunto onerosa energeticamente. Confondiamo il piacere di una vita comoda con la soddisfazione di una vita piena di significato, piacere e significato non sempre vanno a braccetto.

La tecnologia

Come sai se mi segui sono convinto che noi siamo “animali tecnologici”, senza la tecnica non esisteremmo, ed è qui che si annida il nostro super potere di sopravvivenza. Ciò non indica che la tecnica sia innocua, infatti di tanto in tanto abbiamo enormi problemi con una delle prime tecnologie mai create, cioè il fuoco. Di certo il fatto di poter avere una distrazione gigantesca come lo smartphone a portata di mano è qualcosa che disconnette le persone in modo molto forte ed invadente. Allo stesso tempo però, se ci pensiamo meglio, non si tratta solo del mezzo che usiamo per sfuggire alla connessione ma del fatto che tendiamo a farlo… lascia che mi spieghi meglio.

Di certo la tecnologia ce la mette tutta per renderci schiavi, i social fanno di tutto affinché la gente non si scolleghi mai, le notifiche delle varie app ci tengono sempre aggiornati e connessi. Tuttavia credo che tale tendenza sia precedente ai social, viaggio avanti e indietro per l’Italia da decenni, spesso in treno, se una volta la gente non era prona sul proprio schermo digitale lo era invece su giornali, riviste e qualsiasi altra cose le consentisse di “sconnettersi dal prossimo”. Di certo è vero che era più semplice interrompere la lettura di un quotidiano per iniziare una conversazione, rispetto a fermare una persona che spippola sul telefono (chissà forse deve salvare il mondo è meglio non disturbare).

Esistono studi che cercano di argomentare ciò che ho appena esposto, insomma è una traiettoria che seguiamo da tempo ma che allo stesso tempo è stata esacerbata dai nuovi contesti digitali che tutti frequentiamo. Si, perché non si tratta di avere attenzione ma di avere connessione, ecco la vera motivazione del titolo di questo episodio, sono le connessioni vere a farci bene. Il che non significa due cose: la prima che l’autonomia sia negativa di per sè, può di certo farci credere di bastare a noi stessi ma una società che ricerchi la libertà come valore sociale deve essere attenta all’autonomia degli individui. E seconda cosa, che non piacerà a molti, la tecnologia non è solo un mezzo di disconnessione ma può anche creare connessioni.

Basta non confondere un like sul post con una dichiarazione di affetto reale. Lo so che è banale ma non troppo, è fin troppo semplice immaginare che quei like possano essere vera connessione, sai perché? Perché in parte sono un piccolo dono di attenzione ma molto piccolo, spesso insignificante, perché non ha richiesto alcuno sforzo. Infatti pensaci, un tizio ti mette like ad un post mentre un altro fa lo stesso ma in più commenta ciò che hai scritto in modo intelligente e supportivo. Quale delle due dimostrazioni giudicherai meglio? Sicuramente la seconda, perché ha richiesto impegno e dedizione.

Eccolo il piccolo cortocircuito, il benessere ci sta abituando alla comodità, quest’ultima è diventata una sorta di valore da perseguire (come per gli utilitaristi filosofici della felicità) e senza accorgercene iniziamo ad apprezzare quelle relazioni facili, semplici e non impegnative. Ma allo stesso tempo sappiamo bene che è proprio la cura, l’attenzione reale a generare connessione, infatti apprezziamo molto di più un regalo pensato, ricercato sulle nostre preferenze, che un regalo (di egual valore economico) ma generico. Siamo stati pensati, gli psicologi dicono “mentalizzati” dall’altra persona e questo ci piace e ci fa bene!

Ti lascio con una riflessione di Italo Calvino al quale un giornalista fece una domanda a bruciapelo: “dia un consiglio ai giovani d’oggi” e lui rispose qualcosa del genere: “non fidatevi delle cose comode”.

A presto
Genna


Gennaro Romagnoli
Gennaro Romagnoli

Mi chiamo Gennaro Romagnoli e sono uno Psicologo, Psicoterapeuta ed esperto di Meditazione. Autore e divulgatore di PsiNel, il podcast di psicologia più ascoltato in Italia. Se desideri sapere di più clicca qui.