A grande richiesta ecco il secondo capitolo della trilogia dedicata al tema dell’elefante nella stanza, ormai dovresti sapere a cosa faccio riferimento. Al fatto che si parli sempre meno di una delle faccende più rilevanti della nostra vita, cioè la sua fine.

E oggi ci lanceremo in elucubrazioni spicciole sull’esistenza o meno di una “vita oltre la vita“. Una domandina estiva che sono convinto possa aiutare molte persone a dare maggiore senso ad ogni singola giornata.

(Qui sotto trovi l’approfondimento in un video Youtube)

Non sappiamo molto

La verità è che la scienza non sa molto della morte, si occupa certamente di descrivere la differenza tra una cosa “viva” ed un’altra “non viva” ma anche queste distinzioni non sono così semplici. Un esempio molto noto (e purtroppo anche in voga) è quello dei virus.

Come probabilmente saprete un virus è un aggregato di materiale biologico incapace di riprodursi o di “alimentarsi” da solo, è dunque un parassita. Ma dato che per la classificazione dei viventi è necessario che vi siano queste abilità (anche in parte) gli studiosi sono ancora incerti se definirlo “vivo”.

Diventa “vivo” nel momento in cui riesce ad attaccare un ospite, a quel punto attiva tutte le funzioni di riproduzione e alimentazione dei viventi. Dunque non solo non sappiamo se esista (chiaramente) una vita dopo la vita ma non sappiamo ancora definire con certezza cosa significhi “vita”.

Ci tengo a sottolineare che questo non è un semplice gioco retorico, il fatto di andare a cercare qualcosa, le tracce di qualsiasi cosa, presuppone che si sappia cosa andiamo a cercare. E se è già difficile definire cosa stiamo ricercando, diventa molto difficile trovarlo.

In questa socratica ignoranza ciò che sappiamo è che la maggior parte della materia fisica intorno a noi è ancora sconosciuta e addirittura invisibile. Sappiamo che i nostri apparati sensoriali non vedono la realtà ma la ricostruiscono, sappiamo che ciò che vediamo non è esattamente ciò che è fisicamente presente.

La vita oltre la vita

Come abbiamo visto nella precedente puntata, sperare e credere in una vita oltre la vita è spesso un modo per fuggire all’idea della fine. Un modo per consolarsi ad un qualche livello, un meccanismo di difesa che in un qualche modo mettiamo in campo quando le cose diventano difficili.

Così come per molti di noi il solo pensiero che queste “vacanze” possano terminare è un pensiero angosciante, la stessa identica cosa avviene per il tema della morte. Per quanto ti possa essere sembrato ottimista nel podcast, purtroppo le cose non sono davvero così facili da digerire.

Ed è importante sottolineare questo aspetto prima di poter parlare di “vita oltre la vita” o, come spero tu abbia ascoltato con attenzione, parlare di: “consapevolezza dopo la vita”. Quindi noi sicuramente abbiamo questo bias prospettico, di non vedere che “la vacanza” prima o poi finisce.

Come abbiamo visto, indugiare in tale errore percettivo può portare alla perdita di significato in ciò che facciamo. Credere che la vita sia eterna è il modo migliore per toglierle valore invece che dargliene, proprio come se avessi a disposizione una risorsa eterna, non le daresti così tanto valore.

Dunque il nostro punto di partenza per utilizzare questa categoria della nostra esistenza è partire dal fatto che essa è FINITA e non infinita. Questo significa che tutto finisce? Che allora il materialismo ed il determinismo hanno vinto? Per me la risposta è “dipende”…

La vita “come stato di coscienza”

Come abbiamo sostenuto nell’episodio di oggi la vita è “uno stato di coscienza” o per lo meno, la sensazione che noi non vogliamo perdere non è quella di “essere vivi” ma di essere “noi stessi”. Per quanto si possa aver provato dolore nella vita nessuno di noi ha sperimentato cosa significhi davvero morire, sappiamo solo che in alcuni casi la coscienza può cambiare già oggi.

Un dolore intenso, una situazione di pericolo estremo modificano a tal punto la nostra coscienza da portarci anche in stati di estrema confusione mentale. Ne sono prova gli svenimenti dovuti al dolore e i PTSD che dimostrano al mondo intero quanto la nostra mente possa essere perturbata da fattori esterni.

Quando andiamo a dormire o quando sveniamo abbiamo tutti una esperienza di cosa significhi “avere un forte cambio di stato di coscienza”. E non è un caso che i racconti di chi ha fatto largo uso di psichedelici parlino di “altre dimensioni” che non riusciamo a percepire, perché quando cambia lo stato di coscienza in quel modo, cambia tutto il nostro modo di vedere, sentire e pensare.

Ora un vero materialista direbbe: “Ok, ma lo stato di coscienza dipende dal fatto che siamo vivi. Se i neuroni si spengono e muoiono, non può esserci alcun stato di coscienza. E questo è provato proprio dal fatto che svenire e/o andare in coma, dipendono da un mal funzionamento del sistema”. Insomma il ragionamento non fa una piega.

Esistono tuttavia tutta una serie di ipotesi avanzate dai filosofi della mente, le quali sembrano dirci che questo modo di ragionare derivi da un assunto filosofico di base, l’emergentismo. Secondo il quale la coscienza sarebbe un epifenomeno che emerge dalla complessità del funzionamento del nostro cervello.

La coscienza che precede la materia

Alcuni filosofi molto in gambe, che non accettano la visione emergentista si spinti in ipotesi molto ardite, secondo le quali la coscienza non emergerebbe dalla complessità ma sarebbe insita nella materia! Questa ipotesi non nasce dal nulla ma dalla domanda “e se la coscienza non emergesse? Cosa dovremmo pensare?”.

Per alcuni molto più newage il cervello non farebbe niente ma si limiterebbe ad intercettare una frequenza dall’esterno, sarebbe una sorta di antenna che convoglia la coscienza. Una ipotesi che ricorda molto l’idea religiosa di anima, dove una sorta di ente etereo, da un’altra dimensione, entra in contatto con noi qui e ci da la nostra identità.

Come sai io sono uno scettico ma la pratica della meditazione mi ha fatto provare alcune esperienze che sembrano avvicinarsi ad una visione simile. Più simile alla parte sopra, quella dei filosofi che pensano che l’unico modo per risolvere l’aporia della coscienza non sia l’emergentismo ma il vedere la coscienza come una categoria del nostro universo.

Per altri ancora più arditi sarebbe stata la coscienza a far collassare la le onde presenti nel vuoto quantico e a generare il big bang. Lo so, qui siamo al limite della supercazzola, però è interessante mostrare questi vari tentativi di spigare alcune cose, i quali solitamente sfociano nella spiritualità più sfrenata.

Noi proseguiamo con un atteggiamento scientifico: abbiamo detto di non sapere esattamente cosa significhi “vita” e abbiamo visto che è anche difficile definire cosa significhi per noi “essere vivi”. Cioè qual è la sensazione di essere vivi? E’ uno stato di coscienza? Se così fosse allora la chiave è forse nella nostra identità.

La nostra identità

La mia ipotesi che è ancora più strampalata delle precedenti, parte dalla mia esperienza con la pratica meditativa. Che io svolgo in modo assolutamente a-religioso e a-spirtuale, la faccio come un mero esercizio della mia consapevolezza, esattamente come la insegno qui con il mirabolante nome di “meditazione scientifica”.

Questa pratica ha come scopo quello di notare tutte le nostre identificazioni e liberarcene gradualmente. A furia di svolgere questo esercizio ci si ritrova senza identificazioni, senza quelle voci che continuano a narrare di te, della tua vita, di ciò che hai fatto e che farai ecc. Ad un certo punto ti ritrovi semplicemente a stare lì, senza fare niente.

In quel momento non si prova solo beatitudine e gioia ma anche senso di smarrimento e di vuoto assoluto, che per fortuna sopraggiunge ad un livello della pratica nel quale si sono acquisite le competenze per riuscire a gestirlo. Ma la sensazione chiara è cristallina NON è di essere qualcosa d’altro rispetto a se stessi ma è di essere pienamente se stessi.

Sembrerà strano a chi non pratica la meditazione, sembreranno tante parole vuote, ma se pratichi quasi sicuramente hai colto il senso di queste parole. Sentirci noi stessi senza dover richiamare ricordi e narrazioni di noi stessi, senza quella auto biografia costantemente in sotto fondo, è strano ma è possibile ed è documentato in molti resoconti della pratica (con altre parole).

Il cerchio della vita

Immagino naturalisti, biologi e scienziati che s’imbattono in questo contenuto e pensano: è normale che vi sia la morte, senza la morte non esiste la vita. Se non muoiono certe piante o certe specie all’interno di alcuni ecosistemi questi saltano, non funzionano più ed è per questo che si fanno i controlli di quanta fauna e flora è presente in alcuni ambienti.

Questo circolo della vita ci fa vedere l’essere umano come mero portatore di geni, una volta procreato l’individuo può anche sparire, avendo compiuto il proprio dovere evolutivo, avendo portato nuova linfa alla propria specie. Una visione meccanicistica ma allo stesso tempo davvero plausibile.

Ma come vedremo nel Qde le cose non sono così semplici, esistono esperienze e dati che ci mostrano quanto le cose siano ancora più complicate del semplice inneggiare alla “legge della natura”, qualcosa che va oltre le nostre attuali comprensioni.

Si tratta però di qualcosa di talmente delicato che ho deciso di presentare solo a chi mi segue da molto tempo, perché contiene la descrizione degli ultimi istanti della vita di mia madre. Proprio come in un film mia madre ci ha lasciati mentre io e mia sorella le stringevamo la mano, abbiamo assistito al suo ultimo respiro.

Non ti dico questo per impressionarti ma è l’unico modo che ho per darti una prova tangibile di ciò che ti racconterò all’interno del Qde. Per cui ti aspetto sia per questa parte che per il nostro consueto video Youtube che trovi qui sotto…

A presto
Genna


Gennaro Romagnoli
Gennaro Romagnoli

Mi chiamo Gennaro Romagnoli e sono uno Psicologo, Psicoterapeuta ed esperto di Meditazione. Autore e divulgatore di PsiNel, il podcast di psicologia più ascoltato in Italia. Se desideri sapere di più clicca qui.