
Esistono molti modi per migliorare se stessi, il primo passo è come sempre la consapevolezza ma se qualcuno mi chiedesse di fare una classifica direi che tra i primi posti ci sarebbe di certo il concetto di self-kindness. La capacità di trattarsi intenzionalmente in modo gentile, il cercare di capire come e quando non lo facciamo e smetterla di usare il duro giudizio convinti che esso possa motivarci e/o aiutarci a capire meglio le cose… come vedremo è esattamente il contrario!
La prima volta
La prima volta che ho sentito parlare di self-kindness e in particolare di self-compassion non avevo minimamente compreso la loro importanza, credevo fosse una sorta di atteggiamento morbido verso se stessi, credevo fosse un modo per evitare di impazzire durante la pratica di meditazione. In parte avevo ragione, ma come molti ero convinto di non averne quasi bisogno, anzi pensavo di aver bisogno proprio del contrario. Sono una persona mediamente pigra, quando ero piccolo tra infanzia e adolescenza ero un vero e proprio pigrone, intento a cercare di fare di tutto per non fare niente e oziare dignitosamente.
Dato che il mio primo incontro con questo termine è arrivato durante gli anni di Università la prima cosa che ho pensato è stata: “guarda che bello, vedi che fai bene a trattarti con gentilezza… anzi forse tu ne usi troppa dovresti trattarti con più durezza”. Ero appena stato ad una lezione serale di una presentazione di un corso di Vipassana, dopo anni passati a praticare l’ipnosi e l’auto-ipnosi quelle indicazioni mi sembravano interessanti ma vuote, erano cose vecchie, io facevo l’ipnosi quella roba moderna, mica robe da vecchi rincretiniti e fin troppo gentili con tutti.
Poi ho iniziato a praticare e lì mi sono dovuto rendere conto di una cosa: non ero così gentile come pensavo di essere. Sedermi ogni giorno in meditazione per un minimo di 30 minuti (cosa che faccio ormai da decenni) mi ha costretto a notare che ero convinto di essere realmente gentile e accogliente con me stesso ma non era vero. Continuavo (e a volte continuo ancora oggi) a giudicarmi, confrontarmi, valutarmi duramente per un errore, insomma a fare quello che la maggior parte di noi fa senza rendersene conto. Inizialmente ero quasi terrorizzato all’idea di lasciar andare questa parte di me!
Sono stato fortunato, quando ho incontrato la psicologia mi sono perdutamente innamorato e dedico la mia vita al suo studio e approfondimento. Ma per anni prima di conoscerla ho vagato nell’oscurità della mente, studiare non mi piaceva, odiavo tutto ciò che assomigliasse ad un pensiero contorto, filosofico o troppo complicato, perchè ero convinto di essere scemo (anni di maestri elementari e professori delle medie mi hanno aiutato a crederlo). Quando ho incontrato la psicologia ho iniziato a capire molte cose, prima tra tutte di non essere poi così stupido…
… quando ho iniziato a trattarmi con più gentilezza grazie alla pratica della meditazione, tra i primi dubbi c’era proprio qualcosa del genere: “ma non è che se mi tratto con gentilezza poi perdo questo mordente nei confronti dello studio e della psicologia? Non perdo questa motivazione a voler conoscere e lavorare nel campo della psicologia?”. Dopo oltre 10 anni posso assicurati che le cose non sono andate così, non ho perso passione e anzi, trattarmi con gentilezza (intesa come Self-kindness, d’ora in poi SK) ha aumentato il mio interesse per la mente umana e mi ha aperto ad un modo completamente nuovo di intenderla.
SK ed equanimità
In una recente puntata ti ho parlato del tema della equanimità, cioè della capacità di osservare i nostri contenuti interiori (e anche il mondo che ci circonda) cercando di non attaccarci e di non evitare. Non attaccarci alle cose che ci piacciono e non evitare le cose che non ci piacciono, no tranquillo non è una cosa che devi fare durante il giorno, solitamente è una delle basi della pratica della meditazione. Aggiungerei, una delle basi di un buon insegnamento alla meditazione, si perché non sempre è esplicitato questo passaggio che qui su Psinel discutiamo da tempo, usando il nomignolo di Goenka (Il Gioco delle sensazioni).
Come si fa a ridurre la tendenza innata della mente di categorizzare e giudicare il mondo? Cercando di agire ad un passaggio delicato del giudizio: quando sentiamo la sensazione di attaccamento e avvicinamento o quando sentiamo il suo opposto, cioè l’evitamento. Nell’episodio “dovrei restare o andare” abbiamo già visto questa risposta fisiologica che appartiene a tutto il mondo dei viventi ed è anche per questo che potrebbe spaventare farlo. Cioè se il “buon dio” ci ha dato la capacità di discernere ciò che ci nutre da ciò che ci danneggia perché mai dovremmo intrometterci in questo delicato meccanismo?
Perché per quanto riguarda la sopravvivenza nella savana è un’ottima indicazione ma non per la gestione dei pensieri complessi con i quali abbiamo ogni giorno a che fare. Non solo, facendolo scopri velocemente che è possibile, dunque quale entità demoniaca può averci inserito la possibilità di trascendere una aspetto così importante della percezione? Ok lo so, sono tutte domande filosofiche o teologiche, ma sono interessanti perché aprono una breccia nel nostro modo normale di interpretare il nostro comportamento. Siamo spesso convinti di sapere cosa sia più giusto per noi… ma non sempre le cose stanno così!
Ecco questo meccanismo di equanimità non funzionerebbe senza la capacità di trattaci con gentilezza. Magari ci riusciremmo lo stesso ma ci costerebbe una fatica enorme cercare ogni volta di superare i meccanismi di difesa della nostra mente. I quali vengono proprio addolciti e a volte messi fuori uso dalla compassione. Non mi credi? La prossima volta che sei davvero arrabbiato prova a guardare la foto di tuo figlio da bimbo, di un cucciolo, il volto di neonato e ti sentirai subito più calmo. Certo se sei davvero incavolato non gestirà le tue emozioni (altrimenti ci avrei già scritto un libro “la tecnica del bambino”) ma ti aiuterà a capire che compassione e difesa non funzionano bene insieme.
Quando ti scopri ad attaccarti alle cose o ad evitarle la prima cosa che fai è rimproverarti (almeno se sei come la maggior parte delle persone su questo pianeta), tali rimproveri invece di fungere da feedback e correggere meglio l’errore tendono a farti attivare, ad aumentare il tuo aurosal. Se tale attivazione sale sopra una certa soglia, non così alta come si può immaginare, si tende ad entrare in un meccanismo di difesa, di attacco fuga, attivando uno dei meccanismi più famosi del nostro sistema nervoso autonomo.
Mindfulness e SK
Uno degli aspetti a cui pochi pensano è che la nostra amata mindfulness, quando espressa in modo preciso non significa solo restare nel presente ma significa diventare consapevoli del propri pensieri. Osservare l’osservatore direbbero quelli bravi, per riuscire a farlo non c’è niente di meglio della nostra SK. Come faccio ad osservare l’osservatore? Mi avete chiesto di recente.
Ogni volta che noti di aver sbagliato, di non essere più nel momento presente, ogni volta che ci riesco stai essenzialmente osservando la tua parte che osserva. No, non è solo un gioco di prestigio linguistico quanto hai letto, lascia che lo spieghi meglio: Come fai a sapere che non sei più nel presente? Perché scopri di essere altrove: magari ti accorgi di star pensando alla spesa di domani o alla discussione di ieri sera, ma non sei nel presente. Per riuscire a farlo l’osservatore deve rendersi conto che non sta più osservando il presente, ergo l’osservatore osserva se stesso.
In realtà ci rendiamo conto che questa abilità sarebbe devastante senza la SK, sarebbe come prenderci a schiaffi ogni volta che perdiamo attenzione. Di certo ci allenerebbe lì per lì a restare nel presente ma ad un prezzo devastante: la nostra salute mentale. Sì perché la SK correla praticamente con ogni parametro di salute mentale. In altre parole sapere se una persona si tratta particolarmente male è un indicatore affidabile della sua propensione a soffrire psicologicamente. La qual cosa non è una virtù, non sto dicendo che è una persona che ama la sofferenza in generale ma che ha una più alta probabilità di incorrere in psicopatologie.
Questo effetto è ubiquitario, cioè è stato notato anche nelle relazioni: una coppia che si tratta male è una coppia destinata a durare poco, non è una semplice deduzione ma il frutto di anni di ricerche nel campo della psicologia delle relazioni. Certo esistono anche coppie che apparentemente si trattano male, magari di fronte agli amici si punzecchiano e cose del genere, ma quando c’è costante critica, costante sottomissione o mancanza di rispetto non solo in pubblico (come maschera) ma anche nel privato… è molto probabile che quella coppia funzioni male.
Purtroppo sappiamo sia dalla biologia che dalla psicologia che trattare male a volte genera un effetto paradosso. Non solo nei casi che possiamo immaginare come la donna che nonostante i maltrattamenti torna dall’uomo violento, ma è un fenomeno che abbiamo riscontrato anche in laboratorio. Se ti piacciono questi parallelismi tra biologia, psicologia e origini del nostro comportamento ti consiglio di leggere tutto quello che ha scritto Robert Sapolsky, il quale oltre ad essere davvero bravo come scienziato ha anche una scrittura fresca ed interessante. Io non riesco a leggere un suo libro senza sottolineare praticamente tutto!
Troppa gentilezza (la gaussiana)
“Ma se poi sono troppo gentile?” Mi piacerebbe dirti che alla gentilezza non c’è limite e nella mia esperienza clinica ammetto che tutti i miei pazienti hanno avuto (e hanno) tratto enormi benefici nella SK. Tuttavia esiste un metro di mistura anche per la SK, sopratutto quando viene usata in modo compensatorio. “Dato che mi tratto molto molto male cerco di essere sempre molto gentile” da un lato è una ottima scelta mentre dall’altro potrebbe essere una sorta di fuga per non soffrire. Non appena sento il mio giudice interiore lo zittisco con una scarica di gentilezza… ecco così non va proprio bene!
La gentilezza ti serve per non scappare da te stesso, per non iper compensare, per avere la capacità di osservare il dolore senza alienarlo e/o cercare di cancellarlo, altrimenti violiamo la nostra equanimità. Secondo diversi autori (tra i quali Seligman e Adam Grant) qualsiasi qualità e virtù se esageratamente utilizzata può nuocere: una persona troppo motivata diventa ossessionata per il proprio lavoro, una persona troppo “innamorata” diventa esageratamente attaccata al proprio oggetto d’amore ecc. Non c’era bisogno di esperimenti per capirlo vero? Tuttavia li hanno fatti perché sai è facile dire: “ma quella non è motivazione” ecc. ma le cose sono sempre un può più complesse di come le immaginiamo.

L’immagine che vedi qui sopra è una riproduzione di quella che si trova negli studi citati, qualsiasi qualità può essere carente, ottimale o in eccesso. L’eccesso di SK (quella vera) non porta necessariamente alla pigrizia, come abbiamo argomentato più volte, ma può portare a ciò che abbiamo visto poco fa, ad una sorta di allontanamento da noi stessi. E’ come se cercassimo di correre con troppa foga ai ripari della gentilezza, la qual cosa può poi trasformarsi anche in de-motivazione e auto-indulgenza. Questo è un tema delicato, sai perché? Lo ripeto: la maggior parte delle persone si tratta in modo eccessivamente duro senza saperlo!
Lo so che può suonare assurdo ma ti assicuro che le cose stanno così. Io non avrei mai detto di trattarmi in modo troppo duro fino a quando non ho iniziato ad indagare la mia mente attraverso la pratica della meditazione. Avevo già fatto diversi percorsi, avevo seguito moltissime altre pratiche, avevo scritto quaderni e quaderni di auto-analisi, ma solo attraverso l’osservazione consapevole mi sono reso conto di quanto tendessi ad essere poco compassionevole. E ci ho messo un bel po’ di tempo per entrare davvero in contatto con le mie parti che necessitavano (e ancora necessitano) di maggiore gentilezza.
Un semplice esercizio come quello che hai provato nel podcast di oggi, ripetuto ogni giorno, può letteralmente cambiare il tuo modo di vedere il mondo. Ancora una volta: no non è magia, ci sono un sacco di studi che dimostrano come, pensare alla propria e all’altrui vulnerabilità e sentire genuinamente il desiderio di stare meglio (noi e gli altri) attivi circuiti cerebrali che, a furia di essere esercitati, diventano più forti e stabili. Come saprà il 99% dei lettori che è giunto sino a qui (si solo voi probabilmente) si chiama neuroplasticità ed è una delle cose più belle che abbiamo capito negli ultimi decenni.
Fammi sapere cosa ne pensi (qui, suoi nostri social, su YouTUbe e da poco puoi anche commentare il podcast direttamente da spotify)
Genna