Un recente studio afferma che, nei momenti di difficoltà pensare al momento presente aumenta la salienza degli eventi negativi mentre pensare al futuro ci aiuta molto di più! Lo studio è stato effettuato durante la pandemia (sul mondo della produzione musicale), quando eravamo tutti chiusi in casa e in quel contesto, “concentrarsi sul presente non aiutava ma peggiorava” (secondo i ricercatori). Quindi chi ha meditato durante la pandemia è stato peggio?
Chi ha meditato durante la pandemia è stato peggio?
Questo penso fosse la domanda più rilevante con la quale i ricercatori dovevano confrontarsi al termine del proprio studio o forse all’inizio. Lo so è una ipotesi molto difficile da sondare soprattutto a posteriori mentre cercare di valutare se uno “pensava più al presente o più al futuro” sembra essere stato più semplice. Se hai ascoltato l’episodio sai già tutto, in realtà è molto probabile che chi si è sentito solo e affranto ed ha iniziato a meditare in quel momento, possa aver riscontrato dei problemi. Infatti la meditazione deve essere vista come un allenamento e non un rimedio.
Lo abbiamo visto molte volte: l’allenamento fisico ti fa bene a prevenire vari problematiche, se lo fai con costanza diventa un antidoto a molte sofferenze. Ma se lo fai quando stai male, magari perché hai letto da qualche parte che correre fa bene al mal di schiena, ma non sei abituato, allora preparati ad un peggioramento. Questa è la differenza tra cura e prevenzione, chi praticava già la meditazione (come nel mio caso) durante quei giorni di clausura non solo a continuato a praticare ma molto probabilmente è diventato uno degli appuntamenti più importanti della giornata (come dovrebbe naturalmente essere).
Se hai costruito delle basi ti ci puoi appoggiare anche nei momenti di difficoltà. Cercare di appoggiarsi a basi inesistenti in quei momenti è pericoloso, soprattutto se lo facciamo da soli. Questo non significa sminuire l’importanza della speranza nel futuro e di quella che alcuni mie colleghi chiamano “prospettiva”, anche questa è importante. Infatti ci abbiamo già dedicato diversi episodi come questo la cosa pericolosa di questo genere di ricerche è che sembrano dividere le cose con l’accetta: da una parte c’è stare nel presente e dall’altra lo sperare nel futuro, come se le due cose si escludessero.
La formula migliore per me è questa: per avere una buona prospettiva nel futuro bisogna essere capaci di dimorare nel presente, accogliere ciò che c’è momento per momento. Se invece pensiamo al futuro come ad una fuga, un momento nel quale prima o poi mi sentirò davvero bene, ecco che stiamo scappando via da ciò che abbiamo intorno qui e ora. Pensare al futuro è sicuramente un buon modo di motivarsi e di darsi forza, la speranza è importantissima ma dobbiamo stare attenti a non cercare di ricorrere il futuro scappando dal presente.
Ci sono sempre più studi che cercano di smontare il “restare nel presente” e non è una cosa negativa, anzi! Tuttavia bisogna stare attenti e coinvolgere anche esperti della materia, i quali avrebbero far potuto notare che meditare non significa concentrarsi sulle cose negative (e neanche su quelle positive) tanto per fare un esempio. Gli studi più interessanti sono quelli sulla creatività, come sappiamo far vagare la mente sembra darci molte più idee del restare assorti in un qualche compito, come ad esempio la meditazione.
La mente predittiva
Un altro indizio interessante è che stranamente sembra essere molto più facile pensare al futuro rispetto che concentrarsi sul presente. Questo perché la nostra mente è quasi sempre tra passato e futuro. Lo abbiamo visto fin troppe volte ma è bene ricordarlo soprattutto per chi è qui per la prima volta: la funzione principale del nostro cervello non è percepire la realtà che ci circonda ma anticiparla. In questo modo riesce a collocare efficacemente le risorse dove sono necessarie, ovviamente lo fa sulla base dell’esperienza ma una volta che questa è assodata è come se non avesse bisogno di nuovi dati.
E’ per questo che quando fai un viaggio che non hai mai fatto prima (soprattutto quando eri piccolo) l’andata ti sembrava sempre più lunga del ritorno. All’andata non hai dati per poter prevedere quanto durerà al ritorno sì e quindi hai come l’impressione che il viaggio duri di meno. Tale meccanismo fa si che la nostra testa sia costantemente nel passato mentre si proietta nel futuro, lo fa talmente bene che raramente ce ne accorgiamo tranne quando stiamo male. Se inizi ad avere troppa apprensione e ansia di certo ti accorgi di quanto la mente sia proiettata al futuro ma fino a quel punto è facile non accorgersene.
In questo momento, per riuscire a leggere ogni singola parola stai viaggiano nel passato e nel futuro. Stai guardando dei segni neri su uno sfondo bianco che per la maggior parte delle creature sul pianeta non hanno alcun senso. Per capirli devi pescare dal tuo dizionario interiore, cioè le parole che hai memorizzato, e proiettarle nel futuro: lo so che te l’ho detto un sacco volte ma è davvero così, in questo momento non stai leggendo parola per parola ma esattamente come Chat-Gpt, stai prevedendo quale sarà la parola più probabile dopo elefante 😉
Scommetto che il termine “elefante” ti ha sorpreso, è successo perché non stavi leggendo ma stavi prevedendo e ti aspettavi tutt’altra parola. Quando tengo i miei speech dal vivo mi diverto un mondo a far strabuzzare gli occhi delle persone con questi piccoli giochini, che non sono solo giochi. In un recente video Youtube ti ho mostrato che le famose “illusioni ottiche” non sono semplici giochi di intrattenimento ma sono (quasi sempre) esperimenti di psicologia della percezione (molto seri).
Insomma il fatto di essere rivolti al futuro è insito nel nostro modo di funzionare, anche di rivolgerci al passato, non lo è invece quello di restare nel presente, perché? Non lo sappiamo con certezza ma tra le ipotesi che amo maggiormente c’è quella legata al fatto che se anticamente, fossimo rimasti troppo tempo nel presente, avremmo diminuito le nostre possibilità di sopravvivere. Se hai letto il mio primo libro ti ricorderai probabilmente.
La speranza
Il tema della speranza è un altro nostro cavallo di battaglia. Tra le mie passioni, anni prima che diventasse nota , c’è la ormai famosissima psicologia positiva. Qualsiasi studente di psicologia negli ultimi 50 anni ne ha sentito parlare, perché gli studi di Martin Seligman sul tema dell’impotenza appresa sono in realtà studi sulla speranza. Almeno è così che l’ha chiamata lui nel suo ormai leggendario “imparare l’ottimismo” (1990).
In realtà questi studi sono ancora più vecchi e risalgono al 1972 (e non sono mai stati confutati, cioè la teoria è solida) e sono una pietra miliare della psicologia. Se mi segui quasi certamente mi hai sentito parlare di queste cose ma lascia che ti faccia un mega riassunto: immagina di essere alle scuole medie, sta per suonare la campanella della ricreazione e tu e tutti i tuoi compagni siete chiusi nella stanza (per una regola immaginaria, ai miei tempi non ci chiudevano dentro e spero neanche oggi). Pochi minuti prima del suono della campanella il professore è uscito dalla classe con una scusa.
Drinnnn, suona la campanella e tutti i ragazzi si scagliano verso la porta e cercano di aprila, ma questa è chiusa a chiave. Oggi probabilmente prenderebbero il cellulare e chiamerebbero qualcuno ma immaginate di non avere neanche questa possibilità. Nessuno si accorge che ci sono alcune piccole telecamere puntate sulla porta, sono i miei malvagi colleghi che hanno architettato questo esperimento meschino. Il loro intento è contare quante volte provate ad aprire la porta, se ci sono persone che provano e cercano soluzioni e se ce ne sono altre che invece si arrendono più velocemente.
L’ipotesi dei ricercatori è che, dopo un certo numero di fallimenti la maggior parte dei ragazzi smetterà di tentare ma che vi saranno alcune differenze sostanziali tra gli individui. Alcuni smetteranno prima e altri dopo, perché? Perché in base alla situazione le persone tenderanno più o meno velocemente a perdere la speranza di poter aprire quella porta. In poche parole ci sono persone che si arrendono prima e altre dopo e questo dipende da quella che Seligman ha chiamato speranza (e in modo più tecnico “stile esplicativo“).
La cosa si può riassumere in 2 schemi mentali: la consapevolezza della transitorietà della situazione e quanto questa situazione inciderà su altre aree della nostra vita. Seligman le ha chiamate le 2P (che in realtà sono 3 ma facciamo finta di niente per sintesi) il grado di Permanenza e di Pervasività: i soggetti che mantengono una alta speranza pensano che quella situazione prima o poi cesserà (riusciranno ad aprire la porta) e che quei fallimenti, sono limitati a quella situazione. Cioè se non aprono la porta non è perché sono delle cattive persone ma semplicemente non sono riuscite ad aprire la porta!
La prospettiva
E’ chiaro che per immaginare che prima o poi si trovi una situazione i ragazzi devono avere diverse caratteristiche ma essenzialmente la principale è una sorta di fiducia. Fiducia nelle proprie abilità ma anche nel futuro, cioè che prima o poi qualcosa si sbloccherà. E dall’altra parte devono anche possedere una sorta di capacità di riconoscere che le sensazioni negative, legate ai numerosi fallimenti, sono parte di quel contesto e non di altro, se fallisci non è perché sei un fallito ma perché non hai ancora trovato la soluzione.
Tutto questo ha di certo a che fare con la prospettiva, cioè con la nostra capacità di orientarci verso il futuro ma non solo. Ha a che fare con le nostre esperienze passate, come dimostrano gli studi di Seligman (se si continua a fallire chiunque sviluppa uno stato di incapacità appresa) e con come ci raccontiamo ciò che sta accadendo (qui e ora nel presente). In altre parole per avere una reale prospettiva sul futuro bisogna avere richiami dal passato ed una forte base nel momento presente. Non basta semplicemente immaginare come andranno le cose!
Spesso si attribuisce questo atteggiamento a Viktor Frankl, il famoso psichiatra rinchiuso nei lager (che non si sa perché in Italia pensano tutti sia uno psicologo… rinchiuso, questione di titoli tradotti). Frankl raccontava che nei momenti di peggiore disperazione immaginava cosa avrebbe fatto una volta finito quel supplizio. Sarebbe andato in giro per il mondo a raccontare di come erano le condizioni psico-fisiche dei suoi compagni di disavventura. Oppure racconta in tono molto romantico (e per chi ha letto il libro anche straziante dato che non la rivedrà mai più) l’immagine della moglie e di quando si sarebbero rincontrati.
Allo stesso tempo però Frankl ci racconta un episodio molto più preciso, un suo compagno si era convinto che entro Natale sarebbero stati liberati, che la guerra sarebbe finita. Non se lo era inventato ma erano voci che giravano nel campo. Purtroppo la cosa non avvenne e quell’uomo si ammalò e morì, perché? Anche questo aveva appena espresso una prospettiva futura, giusto? Si ma la sua visione futura era una chiara fuga dal presente, un’aspettativa così concreta che al momento della disdetta si era trasformata in una sorta di trauma. Almeno questa è una delle spiegazioni che possiamo darci, anche perchè Frankl racconta di aver visto numerose volte quel fenomeno.
La prospettiva di Frankl nel campo di concentramento era molto diversa, non immaginava il futuro roseo per scappare dalla realtà circostante. Infatti racconta di come il fatto di impegnarsi in ciò che faceva, anche se aveva capito non aver alcun senso (tipo portare avanti e indietro dei sacchi di sabbia dallo stesso posto), lo aiutava a comprendere meglio la situazione. Quindi potremmo dire che era ancorato al suo presente e allo stesso tempo si proiettava nel futuro, immaginando di terminare il manoscritto che aveva accuratamente nascosto nella sua giacca (ma che alla fine perse).
Attacchi alla mindfulness
Una cosa rilevante da constatare è che lo studio originale non sembra avere tutti gli aspetti negativi che sto per commentare, perché in realtà non è contro la meditazione. Il problema nasce quando i giornalisti riportano la notizia dicendo “la speranza supera la meditazione”, “stare nel presente aumenta l’attenzione verso le cose negative”, togliendo tali frasi dal contesto. Lo studio è questo e in caso te lo stessi chiedendo: sì l’ho inserito consapevolmente in fondo al post.
La mindfulness , in quanto incontro tra passato e presente, viene attaccata da ogni parte. Dai tradizionalisti che la vedono come un errore fondamentale, senza l’aspetto etico le pratiche meditative non funzionano. E dal punto di vista del cambiamento psicologico si cerca di confutare l’importanza di stare nel presente, magari con studi come questo. La verità è che le pratiche di minfulness o meglio la meditazione ci ha consentito di dare un nuovo punto di vista al cambiamento personale, il quale non è del tutto rappresentato dalla tradizione. Cioè se sei un esperto di meditazione tradizionale non sai fare lo psicoterpeuta!
Sono anni che bazzico in questo campo (decenni per l’esattezza) e ne ho sentito dire di ogni colore, ma forse l’idea più pericolosa è pensare che le cose tradizionali funzionino meglio di quelle moderne. E da ciò far derivare che in realtà abbiamo studiato per anni inutilmente, tanto c’era già tutto scritto nei testi antichi, questa roba NON è vera! Così come non è vero che le pratiche di meditazione orientali sono state le uniche a parlare dei benefici della consapevolezza, leggete il libro “Esercizi di filosofia spirtuale” di Pierre Hodot per farvi un’idea su questa diatriba.
Il problema è che la gente vede come una contrapposizione tra scienza e tradizione, ma la scienza non è una contrapposizione è un metodo di ricerca che si può applicare ad ogni cosa (più o meno a tutto). Quindi possiamo applicarla alla ricerca spaziale, alla cucina dei dolci e allo studio delle pratiche spirituali antiche, la scienza non è una cosa o un ambito di studi è un metodo! E’ possibile che prima o poi ci dica che meditare fa male? Probabilmente no ma è più che probabile che un giorno ci dica cosa dobbiamo tenere della pratica e cose dobbiamo levare, isolando solo le parti che danno reali risultati.
Proprio come ha fatto la tanto odiata mindfulness, la quale mantiene un sacco di pezzetti di tradizione (anche troppi per i miei gusti) ed infatti non è l’unico modo di vedere la meditazione in modo laico e senza fronzoli, ci sono un sacco di pratiche Zen che fanno altrettanto da anni. Insomma millenni di pratica ci hanno condotti a capire che quelle metodologie, al netto della spiritualità, sono validi strumenti per allenare la mente. Sono gli unici? Assolutamente no ma sono molto potenti e lasciarceli sfuggire solo perché qualcuno vuole “andare contro”… sarebbe davvero da stupidi!
A presto
Genna