
Le tradizioni orientali ne parlano da millenni, il nostro mondo è impermanente, tutto scorre, tutto cambia continuamente. Siamo dei processi in divenire ma non ne siamo consapevoli, la nostra mente ci mostra tutto come fisso, categorico e soprattutto sempre presente. Sempre secondo gli orientali la sofferenza nasce proprio da questa illusione, dall’attaccamento nei confronti di ciò che in realtà è destinato a scomparire e dall’avversione per ciò che invece dobbiamo affrontare. Oggi cercherò di rendere chiari e semplici questo antichi insegnamenti…
Frame di esperienza
Noi esseri umani siamo meravigliosamente paradossali, da un lato facciamo fatica a tenere a mente un concetto per un tot di tempo e dall’altro, in casi particolari, facciamo fatica a fare il contrario, a liberarci da un pensiero o contenuto mentale. Questa tendenza nasce da diverse situazioni: la prima è il tentativo di controllare e gestire il nostro mondo interiore. Questo tema è davvero oceanico, sembra una sorta di semplice tendenza che abbiamo tutti ma in alcuni casi può diventare una vera e propria maledizione.
Cercare di gestire il nostro mondo interno come se fosse un magazzino pieno di oggetti, come se avessimo a che fare con cose fisiche, è uno dei modi più rapidi per impazzire. No, non sto scherzando, è infatti esperienza comune il cercare di liberarsi da un pensiero, una canzone che suona nella testa, ottenendo l’effetto quasi opposto. Questo non accade solo perché gli oggetti mentali non si controllano allo stesso modo di quelli fisici (cioè spostandoli, buttandoli o nascondendoli) ma succede anche perché ogni volta che cerchiamo di gestirli (controllari sarebbe meglio dire) essi diventano più forti.
Questo succede anche nella comunicazione, soprattutto quella politica, se ad esempio non voglio che la gente pensi alla ultima cavolata che ha fatto il mio partito l’ultima cosa che devo fare è parlarne. Cioè se io dico: “non è vero che tizio ha fatto X e Y?? sto riportando nella mente di chi mi ascolta X e Y. Non è solo un becero effetto linguistico della negazione ma è un naturale maccanismo di come funziona la nostra mente. Ma perché facciamo così? Perché per capire ciò che cerchi di mettere da parte (come il discorso da cancellare nella mente altrui, che è un contenuto interno da gestire) devi entrare in contatto con quell’oggetto che vuoi controllare.
Ed entrandoci in contatto lo rafforzi. Ok, mi rendo conto che questo può generare altri paradossi, perché effettivamente per riuscire a gestire bene un contenuto interiore (pensiero, emozione, sensazione ecc.) devo avvicinarmi a lui. Cioè quando si parla di lasciare andare bisogna evitare di pensare che significhi “fai finta di niente”, lasciati scivolare le cose addosso, non è esattamente questo. Cioè si è un “lasciati scivolare le cose addosso” ma solo dopo averle riconosciute! Altrimenti diventa una fuga, altrimenti diventa un modo diverso per cercare di non pensare a qualcosa. Invece il lasciar andare consapevole implica necessariamente il riconoscimento cosciente di ciò che sta accadendo.
Lo so mi sto intrecciando con discorsi e paradossi ma devo confessarti una cosa: so che poche persone ormai leggono ed ho deciso di usare questi post per sfogarmi e parlare liberamente, non per fare visualizzazioni o nuovi appassionati della materia. Di certo continuerò ad inserire gli aspetti più profondi e complessi qui nel post ma devo ammetterlo: preferisco di gran lunga andare a ruota libera e far nascere nuove idee che essere chiaro. Purtroppo l’eccesso di chiarezza sul web sta uccidendo molta creatività e sta impedendo a molti di sviluppare un pensiero complesso… quindi sei avvisato, questi post sono esercizi di pensiero 😉
Perché ci fissiamo?
No, non sto parlando di fissazioni edipiche o del semplice appassionarsi a qualcosa, ma perché tendiamo a fissarci con alcune cose? Perché la nostra mente per capirle si deve identificare con esse. Per capire queste parole, per comprenderle devi per qualche istante identificarti con ciò che stai leggendo. E’ come quando stai guardando un bel film che ti cattura così tanto che ogni scena che vedi ti tocca al cuore, cioè sei così identificato con quello che vedi che le emozioni che osservi diventano vere dentro di te. Ti è mai capitato di guardare un film così intenso da costringerti a dire a te stesso: “ehi fai bel respiro si tratta solo di un film, è tutta finzione”?
Ecco se ti è capitato ciò che hai cercato di fare in quel momento è stato disidentificarti, cioè cercare di evitare l’identificazione che ti fa provare le stesse emozioni del protagonista. La stessa identica cosa succede quando qualcuno ti racconta una storia e, cosa ancora più interessante: succede anche con le storie che ti racconti tu. Così possono accadere quelle scene a volte divertenti, dove magari ti convinci così tanto di qualcosa da reagire senza che nessuno abbia fatto nulla. C’è una barzelletta veneta a tal proposito che suona più o meno in questo modo:
Beppi sta andando dal suo amico Mario a chiedergli un piacere, vorrebbe che gli prestasse la sua auto perché la sua è dal meccanico. Beppi però non ha mai fatto una richiesta del genere a Mario e mentre si reca a casa sua pensa: “eh se Mario rifiutasse, cosa potrei dirgli? …. Ma no dai che non si rifiuta, tutte le volte che lo hai aiutato, tutte le volte che gli hai dato la tua auto, le chiavi di casa, dei soldi, dai non si rifiuterà? Eh ma poi se si rifiuta” e mentre pensa a tutte queste cose Beppi si avvicina alla casa di Mario. Suona il campanello e tutto preso dai pensieri gli urla: “Vai a quel paese, tu e la tua auto” 🙂
Questa barzelletta ci mostra come siamo spesso così presi dai nostri pensieri da agirli nella realtà, a volte senza rendercene conto. Ogni pensiero è come se diventasse un filtro per leggere quello successivo. Freud diceva che la libido è vischiosa, cioè significa che le emozioni (così come i pensieri) tendono a sommarsi tra di loro. Tuo fratello ti fa arrabbiare in casa, tu esci nel traffico e qualcuno ti taglia la strada, la rabbia aumenta, poi arrivi in ufficio un tizio ti fa una battuata e tu lo sbrani. Ma in realtà stai scaricando su di lui la rabbia di tuo fratello, del tizio in auto e poi alla fine anche del tuo collega di lavoro.
Il collante più pesante per i pensieri sono proprio le emozioni. Come facciamo a saperlo? Per molti motivi ma il più semplice per capirlo da solo è pensare a 3 momenti rilevanti della tua vita. Scommetto che se li ricordi è perché c’era di mezzo qualcosa di fortemente emozionante. Stiamo attenti perché per emozioni forti spesso si pensa a qualcosa di molto acuto ma è possibile anche che un momento emozioni e sentimenti più prolungati e duraturi abbia un effetto simile. Come ad esempio durante un lutto annunciato o una fase di forte stress. Le emozioni sono il salvataggio dei videogiochi per il cervello, lasciano un sengalibro tra le storie della nostra mente.
Eventi emozionanti e non
Chiunque abbia vissuto l’attentato delle Torri Gemelle con un pizzico di consapevolezza (cioè che abbia avuto almeno 12 anni o che ne sia stato toccato molto da vicino) non solo lo ricoderà molto vividamente ma probabilmente ricoderà cose incredibili, come ad esempio: dove si trovava e cosa stava facendo quando ha ricevuto la notizia. So che sembra normale ma non è affatto normale, se ti chiedo cosa stavi facendo il 12 agosto del 2012 nel primo pomeriggio, a meno che non ci sia stato qualcosa di emotivamente coinvolgente difficilmente lo ricoderai.
Al contrario molti di noi ricordano molto bene cosa stessero facendo l’11 settembre del 2001 verso le 15 del pomeriggio. Quell’evento si è appiccicato ad un mondo emotivo. Se ci pensiamo è del tutto normale che capiti così: sei un cacciatore raccoglitore, entri in una nuova zona e scopri dei frutti meravigliosi, rossi, succosi e profumati. Il tuo amico di tribù ne mangia uno e schiatta lì davanti a te. Tu ti speaventi e questo diventa un promemoria che ricorderà a te e a chiunque ti chieda cosa è avvenuto, che quelle bacche erano velenose. Ti serve per sopravvivere, ma funziona anche al contrario con le cose positive.
Immaginiamo la stessa scena solo che questa volta le bacche sono commestibili e buonissime. Siete al settimo cielo per averle scoperte così buone e questo fa si che vi ricordiate con più forza dove le avete trovate. Ma se proprio vuoi saperlo il ricordo negativo è molto più forte, perché sopravvivere è più importante che trovare bacche buone da mangiare. Ecco ti ho raccontato tutto questo perché il meccanismo naturale di appiccicare sensazioni a ciò che stiamo vivendo è anche ciò che spesso ci impedisce di lasicar andare.
Quindi sia in situazioni positive, in cui tendiamo ad attaccarci ad una aspettativa ottimistica e sia in quelle negative dove cerchiamo invece di fuggire tendiamo a far fatica a lasciar andare. Se per caso segui Psinel o conosci la psicologia orientale questa faccenda ti avrà di certo acceso qualche lampadina, si tratta della famosa equanimità del buddismo che qui chiamiamo “gioco delle sensazioni” (in onore di un mio maestro spirituale S.N. Goenka). Ma di per se si tratta della stessa identica cosa, sono meccanismi naturali della mente che, di tanto in tanto, si estremizzano e limitano la nostra vita, partendo dal pensiero e arrivando sino ai comportamenti.
Questo non è l’unico meccanismo che determina perché ci attacchiamo alle cose e non riusciamo a lasciarle andare. Ma di fondo c’è sempre uno stato emotivo, o che desideriamo o che vogliamo evitare anche in situazioni meno evidenti. Perché una persona non vuole cambiare le proprie abitudini anche se sono dannose? Per motivi emotivi! Perché quel tizio che ha investito tanto sulla propria impresa fallimentare persiste? Qualcuno direbbe che si tratta del bias dei costi sommersi, e avrebbe ragione ma essenzialmente quel bias deriva dal timore di abbandonare qualcosa su cui abbiamo investito tanto (è sempre un legame emotivo un investimento libidico direbbe ancora il nostro Freud. Ci hai messo amore e impegno mica puoi chiudere tutto!).
Lasciar andare gli altri
Hai letto il libro di Mel Robbins “La teoria di lasciar andare”? E’ un libro che sta spopolando e che essenzialmente ripercorre in modo molto semplice questi temi oceanici. Ha il potere di essere semplice ed esplicativo e a parte qualche sparata da crescita personale anni 90 poco attendibile, si tratta di un bel libro, perché esplora una parte essenziale di questo tema: gli altri. Abbiamo parlato fino a qui di emozioni e se mi segui sai che il più grande attivatore emotivo sono le relazioni. Certo possono esserci eventi naturali pazzeschi ma essenzialmente noi ci intristiamo, ci arrabbiamo, ci vergognamo, soffriamo, per le relazioni intorno a noi.
Noi siamo animali sociali ed è inutile ribadire quanto siano importanti le relazioni. Per questo motivo facciamo fatica a gestirle, anzi si potrebbe dire che tutta la vita è una sorta di scuola della relazione. La Robbins punta il dito verso il bisogno di controllo, che potremmo anche espandere al tema della comprensione e gestione di un mondo che non possiamo gestire ma che, attraverso le nostre previsioni costanti cerchiamo proprio di controllare. Quando confondiamo ciò che prevediamo da ciò che accade, le nostre aspettative che diventano pretese (la mappa e il territorio) ecco che siamo destinati a sbattere il muso e soffrire.
Noi tendiamo a comportarci in modalità prevedibili per vivere in modo sereno. Uno cammina per la strada e non si aspetta di essere aggredito in base a dove si trova ecc. Perché siamo così sensibili alle azioni altrui e molto meno ad altre, come ad esempio prevedere un terremoto (come fanno altri animali)? Perché per noi esseri umani gli altri esseri umani sono stati per millenni, il pericolo più grande da cui salvaguardarsi. Dopo aver sconfitto gli animali più feroci e costruito villaggi e città sempre più grandi, ciò che può ucciderti non era una calamità naturale ma un altro essere umano.
Insomma nasciamo in relazione, questa ci fa crescere e ci nutre per tutta la vita e allo stesso tempo le relazioni sono la cosa più complessa che dobbiamo gestire. La Robbins si concentra sulle relazioni più complesse, quelle famigliari, quelle più strette, nelle quali cerchiamo di controllare per accudire. Nelle quali spesso si cade nella trappola del “proteggere che rende fragili” (per citare il porf. Nardone), dove più cerchi di lenire una ferita e più ci stai mettendo il dito, impedendole di rimarginarsi e di guarire. Insomma saper lasciar “fare” le persone intorno a noi, anche quando tale comportamento ci urta, è spesso un super potere da coltivare.
Attenzione, anche in questo caso non significa arrendersi a comportamenti che non ci piacciono, ma significa invece cercare di far si che le persone si sentano responsabili delle proprie emozioni e dei propri comportamenti. Così come noi dobbiamo esserlo! Se per caso conosci un po’ il mondo della gestione delle emozioni saprai che il primo passo, quello che pochi menzionano (perché è noioso), è sempre quello della responsabilità. Cioè sentirsi parte di ciò che sta accadendo piuttosto che puntare il dito all’esterno: sono io che provo rabbia non sei (solo) tu a generarla in me, sono io che provo tristezza non sei (solo) tu a farmela provare con questo comportamento ecc.
Insomma ragazzi dopo tante parole lascio andare anche il bisogno di approfondire il tema della responsabilità, se mi segui ti uscirà dalle orecchie! Puoi trovare un sacco di altri episodi su questo tema, sarei proprio potuto partire da lei ma ho deciso intenzionalmente di lasciarla verso la fine. Me ne assumo ogni responsabilità!
A presto
Genna