I fisici affermano che il tempo non esista, i filosofi ci illustrano il paradosso dello stare nel presente che è in continuo mutamento, alcuni colleghi sono pronti a scommettere che sta storia di “stare nel presente” sia tutta una trovata per vendere corsi di meditazione… ma è davvero così? Una recente ricerca fa luce sui meccanismi cerebrali coinvolti nella percezione del tempo e i risultati sono davvero sorprendenti…

Tutto “a suo tempo”

Le cose che ci circondano hanno un tempo anche se non ce ne rendiamo conto. Eraclito ci avrebbe detto che tutto scorre (a discapito di Parmenide) ma ci basta guardare una nostra giornata per vedere che il tempo conta eccome, alla faccia di filosofi e fisici che ne annunciano la morte. Tutto ha “il suo tempo” e come sappiamo, riuscire ad essere “in tempo” è una delle cose più rilevanti della nostra esistenza. Sembra esagerato? Continua a leggere…

Hai mai raccontato una barzelletta? Ecco se ti sei mai cimentato in questa opera di destrezza verbale di certo ti sarai accorto che i “tempi” sono essenziali, lo stesso ti sarà capitato se sei uno sportivo e forse anche se hai colto qualche opportunità di business. Il tempo è davvero centrale nella nostra vita, senza rendercene conto riusciamo a modificarlo in base alla nostra psicologia. Troppo facile da ricordare ma troppo utile da poter essere snobbato: se stai bene il tempo vola se stai male sembra non terminare mai!

Quindi il tempo è fondamentale o meglio il timing delle cose, allora perché sembra che la nostra testa non riesca a restare davvero nel presente? Per molti pensatori la risposta è semplice: il presente non esiste, così come non esiste il tempo. Per chi studia la mente umana la risposta non è così “magica” ma di certo non meno semplicistica: la mente umana è uno strumento che ci serve per muoverci agilmente nel mondo, non è una rappresentazioni 1:1 di ciò che capita è una continua simulazione.

Simuliamo per prevedere e prevediamo per risparmiare energia. E’ una faccenda di cui abbiamo parlato un miriade di volte, il modo più semplice di rappresentarlo in questo contesto è parlare di “andare a tempo con la musica”. Anni fa alcuni neuroscienziati (in erba) si chiedevano come potesse un musicista andare realmente a tempo. Pensaci, se dovessimo costruire una macchina in grado di intuire il tempo di un metronomo e poi seguirlo perfettamente ad ogni sua variazione servirebbe un sacco di energia.

Nel momento esatto in cui il metronomo scocca il suo battito un impulso elettrico (elettrochimico) parte dal cervello e si propaga sino all’arto che suona in tempo reale. Per tale rapidità servirebbero diverse centrali nucleari, ma la verità è che funzioniamo in modo diverso: ascoltiamo il metronomo e lo riproduciamo dentro di noi, lo simuliamo e poi, non seguiamo più il vero metronomo ma quello simulato nella nostra testa. Per dirla in modo più strano, non siamo presenti al presente ma siamo presenti ad una simulazione interna.

La ricerca

Lo studio è stato effettuato da due team di ricerca differenti, Naghibi e coll. e Mondok & Wiener, i quali sono andati alla ricerca di tutte le scansioni di risonanza magnetica in cui sono state fatte ricerche che avessero a che fare la percezione del tempo. Dato che le aree interessate sembravano collegate alla percezione del corpo (propriocezione ed interocezione) sono stati reclutati alcuni soggetti ai quali sono stati fatti test per comprendere la capacità di percezione del corpo.

Poi hanno escogitato un esperimento nel quale i soggetti dovevano individuare alcuni intervalli di tempo tra un suono ed un altro, proprio come ipotizzato, più i partecipanti avevano una forte percezione del corpo e più il riconoscimento degli intervalli era accurato. Ora devi sapere che la capacità di percepire il corpo era già stata correlata ad altri aspetti: ad esempio sappiamo che in una persona senza danni neurologici, l’incapacità di percepire il corpo è spesso legata a problemi molto gravi (schizofrenia, disturbi di personalità ecc.).

Non sto parlando del fatto che sia difficile sentire bene alcune parti del corpo, tutti abbiamo qualche difficoltà, soprattutto se non siamo abituati. E non sto parlando neanche di agnosie neurologiche, cioè del fatto che non vi sia proprio la sensazione in quelle parti del corpo, ma che vi sia come una sorta di disconnessione nel percepire quelle parti. Al punto tale che i primi studi sulle pratiche meditative e sullo Yoga si concentrarono proprio su questi aspetti, per dirla in modo prosaico: perché fa bene fare quelle pratiche? Perché ti aiutano a connetterti al tuo corpo.

Le teorie sul perché non ci connettiamo bene al corpo sono tantissime: c’è chi pensa che sia per una questione emotiva, le nostre emozioni si somatizzerebbero nel corpo e sentire certe zone sarebbe come mettere “un dito nella piaga”. C’è chi pensa sia una questione ai allocazione dei energie, dato che quelle parti non “servono” allora non le badiamo. Non abbiamo una risposta precisa, ciò che sappiamo è che via via che cresciamo tendiamo a badare sempre di meno l’aspetto propriocettivo.

Purtroppo ci accorgiamo del corpo solo quando questo ha dei problemi. Mi rendo conto di come appoggio il piede solo se inizio a sentire fastidio mentre cammino. Mi accorgo della mia schiena e della sua posizione, solo se provo un dolore da quelle parti. Infine il mondo complesso e zeppo di interfacce facilitatrici ci ha allontanati sempre di più dall’esperienza, insomma i motivi di una “mancata sensibilità al corpo” non sono rintracciabili solo nelle problematiche psicologiche ma ne siamo un po’ tutti “affetti”.

(Abbiamo prove cliniche che ci invitano a pensare che i traumi subiti abbiano un effetto diretto sulla capacità di percepire il corpo.).

Riappropriarsi del corpo

Il fatto che siamo sempre più “distanti dal corpo” ha fatto si che oggi pratiche come lo Yoga e la meditazione siano diventate davvero molto rilevanti. La psicoterapia è diventata “più somatica” avvalendosi di numerose pratiche per aumentare la connessione mente-corpo. Insomma sembra che questa faccenda di entrare in contatto con noi stessi debba passare dal nostro corpo e non da una sorta di conoscenza interiore metafisica astrusa.

Non a caso, diversi anni fa ho pubblicato un episodio che si intitolava: “conoscere se stessi in una sola sensazione” in quella puntata parlavo della propriocezione come un vero e proprio sesto senso in grado di farci sentire chi siamo. Dicevo che il vero cogito non era “penso dunque sono” ma era “sento dunque sono”, faccenda che sembra astrusa e metafisica ma non la è. Vediamo alcuni esempi tratti dalle nostre conoscenze attuali:

Se prendi una botta in testa o hai un qualche problema di circolazione cerebrale il rischio è che qualche circuito importante del cervello salti, ne possono saltare davvero di tutti i tipi creando anche effetti molto particolari. Ci sono persone che non percepiscono più parti dello spazio, alcuni capiscono le parole ma non riescono ad articolarle, altri il contrario e potrei proseguire per ore e ore. Per una buona disamina ti invito a leggere ogni scritto del mitico Oliver Sacks, quello “che scambiò sua moglie per un cappello”.

Il punto è che anche quando la tua memoria auto-biografica va a farsi benedire, TU resti te stesso. Cioè anche se non sai più come ti chiami, dove abiti, di chi sei figlio, che mestiere fai, continua a persistere una sensazione di essere “te stesso”. Allora da dove arriva questa faccenda? Pensaci, se gli alieni ti rapissero e dovessi spiegare chi sei dovresti necessariamente attingere alle tue memorie auto-biografiche: mi chiamo Gennaro, vendo da Alassio, faccio lo Psicologo e amo la musica.

Quando ti chiedi “chi sei” dai come risposta elementi della tua vita, insiemi di ricordi e memorie di ciò che hai fatto, di ciò che stai facendo e di ciò che hai intenzione di fare. Per ottenere tali risposte è necessaria una bella chicchierata con te stesso. A furia di chiacchierare con noi stessi iniziamo a pensare di essere quel chiacchiericcio ma non è così, tu sei molto di più e purtroppo l’unico modo per toccarlo con mano è fare determinate esperienze.

Esperienze rivelatrici

Agli esordi di questo blog, primi anni 2000, riproposi la storia di Jill Bolte, una neuroscienziata che racconta in un noto TED Talk un ictus. Racconta di aver capito di avere una ischemia in corso ed essendo il proprio mestiere ne descrive le fasi con estrema lucidità. Racconta di come via via si spensero tutti i centri superiori, quelli proprio deputati a quel “chiacchiericcio” e di come via via si fosse creato un magico e piacevole silenzio interiore.

Un racconto del tutto identico a chi ha fatto esperienze di meditazione profonda o esperienze psichedeliche, nelle quali sembra ancora una volta diventare protagonista il corpo. Certo la neuroscienziata non sentiva più il suo pensiero, i suoi discorsi interiori ma parla di sensazioni di beatitudine, di calore, di appagamento, di unione. Le stesse narrate da chi ha meditato per una vita e che spesso vengono definite con il termine “illuminazione”.

Anche le esperienze pre-morte sembrano avere caratteristiche analoghe, una volta depurate da aspetti magici e metafisici, i racconti di chi è stato in bilico tra la vita e la morte assomigliano molto a stati di meditazione profonda o ad esperienze psichedeliche. Ok, a questo punto ti starai chiedendo cosa possa centrare tutto ciò con il tema dello scorrere del tempo, in realtà poco! Ciò che mi interessa sottolineare è che esiste una sorta di vantaggio mentale nel cercare di allontanarsi dalla mente per entrare nel corpo.

Tutto ciò però non significa che se fai palestra diventi più saggio, certo allenare il fisico è fondamentale per molti punti di vista ma non ti renderà più saggio. Ti renderà più forte, resiliente e resistente ma per entrare nel corpo serve una consapevolezza diversa, qualcosa che ti aiuti a mettere da parte l’ostacolo più grande al tuo “sentire”, cioè il pensare. Il che non implica che pensare sia sbagliato o un segnale di qualcosa che non va (anche se dovremmo discuterne) ma implica la capacità di mettere da parte quella coltre di conoscenze che si antepongono tra noi e la nostra esperienza.

Per quanto mi riguarda non c’è esercizio fisico (neanche lo yoga) che tenga, neanche le pratiche di rilassamento e auto-ipnosi fanno qualcosa del genere, l’unica pratica che lo fa esplicitamente è la nostra amata meditazione di consapevolezza. E’ l’unica che si occupa direttamente di mettere da parte i nostri contenuti mentali per tornare nell’unico punto di ancoraggio al presente: il corpo e le sue sensazioni.

Insomma il fatto che tempo e corporeità non sorprende filosofi e pensatori ma dovrebbe farci ragionare molto sulle pratiche che potrebbero consentire una migliore connessione tra queste parti fondamentali del nostro essere. Approfondiamo questo tema nel video Extra e sicuramente in altre puntate in futuro. Fammi sapere cosa ne pensi.

A presto
Genna


Gennaro Romagnoli
Gennaro Romagnoli

Mi chiamo Gennaro Romagnoli e sono uno Psicologo, Psicoterapeuta ed esperto di Meditazione. Autore e divulgatore di PsiNel, il podcast di psicologia più ascoltato in Italia. Se desideri sapere di più clicca qui.