Alfred Adler, medico, psicologo fu uno dei primi collaboratori di Freud insieme a Jung. Sfortunatamente le sue idee vengono studiate molto rapidamente e non hanno avuto la stessa fortuna dei suoi due contemporanei. Adler era convinto che ogni tipo di problematica umana derivasse dalle relazioni interpersonali e creò alcuni metodi innovativi per migliorare la nostra capacità di stare bene in relazione. Questo è il tema dell’episodio di oggi…

Ogni problema nasce dalle relazioni

Adler affermava che tutti i nostri problemi derivano dalle relazioni interpersonali, questa sembra una sparata alta ma se ci si ragiona con attenzione non la è così tanto. Infatti noi nasciamo e cresciamo immersi nelle relazioni, anche questa cosa appare scontata ma nel nostro tempo agiato non tendiamo spesso a dimenticarcene. Se mi segui da qualche tempo sai che questo è uno dei miei pallini da anni, ci ho fatto anche un TEDx (poco fortunato – a causa mia) ma il tema di fondo è sempre lo stesso: facciamo molta fatica a renderci conto dell’effetto delle relazioni fino a quando…

Fino a quando non nascono dei problemi. Il modo più semplice per farci afferrare questo dato di esperienza è semplicemente fare mente locale su 4 eventi: i 2 più felici e i 2 più tristi della nostra vita. Sono pronto a scommettere che in tutti e 4 questi ricordi c’è di mezzo una relazione di un qualche tipo. Qualche astuto filosofo/fisico potrebbe argomentare che ogni cosa in realtà è una sorta di interazione (leggete i libri di Rovelli per capirci) e dunque è del tutto normale che siano esse a darci la pace dei sensi oppure una tortura articolata.

Per Adler il punto più dolente stava proprio nella incapacità di capire “cosa è mio e cosa è tuo” all’interno di una relazione. La quale, se per caso hai seguito i nostri contenuti, è una sorta di qualità emergente della interazione. Il che sta ad indicare che la relazione tra me e te, non né mia né tua ma è qualcosa che intercorre tra di noi in modo più o meno concreto e con più o meno legami reciproci. Facciamo un esempio estemporaneo: in questo momento tra di noi, anche se non ci conosciamo, si sta instaurando una sorta di interazione.

In base a ciò che hai ascoltato e letto ti sei creato delle aspettative su cosa troverai tra queste righe. Ora abbiamo entrambi dei compiti: il mio è quello di far si di creare aspettative e poi di esaudirle in un qualche modo. Cioè se ti ho detto di darti 3 consigli su come gestire meglio le relazioni ti aspetterai che prima o poi tali suggerimenti arrivino. Anche io mi aspetto qualcosa da te, magari che tu possa sopportare un pizzico di introduzione prima di vedere questi fantomatici consigli. Ora immaginiamo che tu sia un esperto del settore e che dunque non abbia bisogno di alcuna introduzione.

Questo io non posso saperlo perché la natura della nostra interazione è particolare. E’ virtuale e asincrona, cioè avviene con un mezzo digitale e non in tempo reale. Il che comporta vantaggi e svantaggi di vario genere. Come ad esempio che io non sappia che il tuo livello di preparazione ti consentirebbe di comprendere velocemente i miei consigli senza l’ausilio di alcuna introduzione. Ma dato che non posso sapere chi usufruirà di tali contenuti è necessario che io faccia la mia introduzione. Se fossi molto bravo farei due percorsi diversi: uno per chi come te sa già tutto ed un altro per chi invece non sa molto.

Una visione semplificata

Ora entrambi abbiamo un compito che nasce dalla nostra interazione: io cercare di spiegarmi nel modo migliore possibile e tu, cercare di comprendere nel modo migliore possibile. Se uno di noi due non si impegna nel proprio compito o peggio, pensa che non sia il proprio, nascono i problemi relazionali. Immagina se io pensassi che debba essere tu a capire le mie parole, dimenticandomi del fatto di essere su un blog di divulgazione inizio a parlare con termini tecnici. Questo generebbe dei problemi, ovviamente se tu non fossi un vero addetto ai lavori, ma anche tu puoi fare altrettanto e pretendere che io mi spieghi al tuo preciso livello di comprensione.

Per quanto ogni regola di buona comunicazione ci dica che la responsabilità della comprensione è sempre in mano a chi spiega e non a chi recepisce, esiste ovviamente una linea sottile di demarcazione, soprattutto in questo caso (virtuale e asincrono). Dal vivo il mio compito sarebbe quello di cercare di spiegarmi in base ai feedback che ricevo ma in questo caso è molto più difficile. Anche dal vivo potrebbe accadere la stessa cosa: io pretendo che tu mi capisca e tu pretendi che io mi spieghi semplicemente. In una visione semplificata questo è il motivo per cui è bene tenere a mente l’idea di fare “i propri compiti”.

Che significa assumersi la responsabilità del proprio operato, di ciò che siamo chiamati a fare in questo preciso momento. Nello specifico io “spiego e tu capisci”! Immagina se fossimo in una chat dal vivo e tu mi chiedessi di spiegarti ogni singola parola di ciò che sto scrivendo, è chiaro che la conversazione diverrebbe impossibile. Dunque il mio compito resterebbe quello di essere semplice ma allo stesso tempo anche tu dovresti sforzarti un pizzico, magari invece di chiedere per ogni parola potresti usare un dizionario in rete.

Se entrambi “facciamo i nostri compiti” sarà difficile che io ti incolpi per non capire e tu facci altrettanto dello spiegare. Certo ci sarà sempre un momento in cui la cosa diventa asimmetrica, soprattutto se uno spiega qualcosa all’altro, ma nella quotidianità delle nostre relazioni molto spesso i problemi arrivano dalla mancata assunzione di responsabilità. Spero i cultori di Adler mi perdonino per queste estreme semplificazioni e anche divagazioni ma questo è il punto su cui voglio portare l’attenzione dei miei lettori. Un punto che molti conoscono fin troppo bene: il tema della responsabilità!

Parlare di Adler non è solo un pretesto per tornare a ribadire l’importanza centrale della responsabilità nelle nostre vite, ma è anche un modo per bilanciare ciò che ti racconto spesso: la differenza tra psicologia europea e quella americana (o meglio nord americana). Spesso ti ho detto che la meraviglia tra le meraviglie che ci ha portato William James c’è proprio l’atteggiamento orientato alla responsabilità, ma forse come la intendeva Adler la cosa è ancora più affascinante e di certo articolata. Per questo non smetterò di scusarmi con gli adleriani, i quali saranno liberi di pensare questo punto che io abbia un complesso di inferiorità. LOL

Individualismo e collettivismo

Nella storia umana ci sono da sempre state spinte individualiste e collettiviste ma mai prima d’ora è stato possibile spingersi verso il primo polo. La possibilità di poter fare praticamente ogni cosa in autonomia, di poter viaggiare praticamente ovunque, di poter accedere a qualsiasi informazione, ci illude di non aver bisogno di relazioni. Senza contare la spinta performativa della nostra società, nella quale l’ascesa sociale viene incoraggiata e vista come una scalata personale, privata, individuale. Ci dimentichiamo troppo facilmente di essere sempre in relazione, anche se non lo vogliamo.

A livello socio-politico possiamo parlare per anni di questa dicotomia ma a livello psicologico e pratico la questione, per me, è molto semplice: si tratta di un falso dilemma. E’ chiaro che ogni collettività è composta da individui e che ogni individuo nasce e si sviluppa solo all’interno di una collettività, per riuscire ad attingere alla responsabilità personale dobbiamo vederla in modo completo o olistico (termine sempre pericoloso da utilizzare). La responsabilità nasce, come affermava Adler, sia da un senso di autonomia che da quello di comunità, se non abbiamo un senso di autonomia facciamo fatica ad accogliere quello di comunità e viceversa.

Ora questa faccenda potrà sembrare banale a chi mi segue da tempo ma ultimamente, sotto a video dedicati alla solitudine, alle relazioni sociali, ai fattori protettivi psicologici (come le relazioni) leggo commenti del tipo: “io non ho bisogno di nessuno per stare bene”. “Dottore lei si sbaglia sono scappato dalle relazioni e ora sto meglio”. “Il male del mondo sono gli umani” ecc. Per prima cosa ricordiamo che queste persone sono in accordo con un gran numero di intellettuali esistenzialisti del passato (“il male è l’altro” diceva Sartre). Ma sotto sotto credo che sia un abbaglio dato dal modo di pensare dei nostri tempi che, invece di fondarsi sulla conoscenza si fonda ancora sulla “pancia”, la quale ci porta a vedere il mondo in bianco e nero.

Forse sarà l’influenza dei media, forse sarà il fatto che abbiamo tutto a disposizione, ma sembra che oggi sia importante più che mai sottolineare che l’importanza di questa dinamica. Ripeto: a livello psicologico è una falsa dicotomia, noi nasciamo e cresciamo in relazione, ogni nostro sentimento intenso viene stimolato e regolato dalle relazioni ecc. Tuttavia tale rete di supporto non deve illuderci che non si debba fare nulla per parteciparvi, e allo stesso tempo NON illuderci del fatto di poterne essere esenti. Per usare una metafora è come se noi tutti fossimo dei mattoni che sostengono una casa, la nostra vera forza è collettiva, tuttavia è necessario che ogni mattone sia forte a sufficienza da reggere nel tempo.

La crescita personale viene vista da tempo come una sorta di atto egoistico e capitalistico: se pensi a te stesso non stai pensando agli altri. Questo è l’abbaglio a cui dobbiamo stare attenti perché la verità è che se tu non pensi a te stesso nessuno lo farà per te, a meno che tu non abbia 8 anni. La cosa interessante è che quando pensi a te stesso hai la forza per occuparti degli altri e non il contrario. Come abbiamo visto in un episodio di tempo fa, pensare solo agli altri per nutrire se stessi può essere molto pericoloso, io l’ho chiamata “la sindrome di Fight Club” … vai a vedere se per caso conosci qualcuno con questo tipo di atteggiamento!

Ricadute pratiche

Spesso si fa fatica a comprendere le eventuali ricadute pratiche di questo discorso ma sono davvero sotto il nostro naso. Se in una coppia lui smette di fare una certa cosa per ripicca non si rende conto che quella sua mancanza porta avanti i dissapori. Se in una società siamo convinti che ci siano persone che penseranno al problema del clima ce ne fregheremo di inquinare meno in prima persona: “tanto sono gli aerei e le grandi industrie ad inquinare”. Per questo questo discorso possa essere sensato, se ad un certo punto in una nave dobbiamo cambiare rotta è bene che tutti remino nella stessa direzione chi più e chi meno.

Una mamma che si preoccupa così tanto dei risultati scolastici del figlio adolescente che pur di aiutarlo inizia a fare i compiti al suo posto, questa è l’immagine più semplice per descrivere questo fenomeno. Senza rendersene conto la madre sta indebolendo il figlio comunicandogli da un lato che gli vuole bene e dall’altro che il risultato è più importante del suo apprendimento. E che sotto sotto non ha fiducia che lui riesca a conseguire tale risultato. Potrà sembrare assurdo ma in relazione tendiamo a fare così, e ovviamente cambia da persona a persona.

Restando in questo esempio ci sono persone più sensibili all’accudimento di altre. La madre per lenire il suo senso di agnoscia derivato dal fatto di vedere il figlio in difficoltà con i compiti li fa al posto suo. Nelle relazioni più paritarie la cosa è ancora peggiore e sotterranea, un partner che accudisce così tanto l’altro da impedirgli di accrescere la propria autostima, un fratello che continua ad occuparsi del minore ecc. Tutte cose bellissime, perché occuparsi degli altri è nobile e bello fino a quando il nostro aiuto non diventa qualcosa che peggiora la situazione invece di migliorarla…come fare?

Adler consiglia una cosa molto semplice: “chi è il destinatario del vantaggio finale di quel compito?” la risposta a questa domanda ci aiuta a capire di chi è quella responsabilità. Nel caso della coppia madre-figlio è chiaro che il destinatario è il figlio. Nella coppia fratelli ancora una volta è il minore il destinatario del vantaggio finale. Prendiamo un caso più complesso: una moglie che si lamenta del fatto che il marito abbia una voce squillante in un locale, per quanto la sua voce possa realmente (o meno) essere più alta del normale, chi è il destinatario di questa manovra?

Alcuni penserebbero il marito, dato che rischierebbe di fare una brutta figura. Ma in verità dipende, perché se fosse la moglie ad imbarazzarsi sarebbe lei la destinataria. Il che non significa che non possa dire al marito che la sua voce potrebbe metterla in imbarazzo, ma quella emozione di imbarazzo o vergogna è della moglie non del marito. Il compito in questo caso fantasioso è sulle spalle della moglie non del marito. Certo lei potrebbe accusarlo e affermare che sia lui a fare una cattiva figura (e probabilmente avrebbe ragione) ma in fondo è lei la prima destinataria della sua stessa richiesta. E’ lei “a non fare i compiti”.

Se ognuno facesse i propri compiti il marito capirebbe che quel suo modo di parlare infastidisce la moglie e dunque cercherebbe di migliorare. Ma questo non servirebbe a niente se la moglie se ne fregasse di lavorare sulle sue emozioni di imbarazzo. Perché prima o poi il marito tornerà (per un motivo o per un altro) ad alzare la voce come ha sempre fatto. Ognuno deve fare i propri compiti e come spero si sia compreso è facile da capire ma è molto difficile da mettere in pratica… per questo si tratta dell’errore fondamentale di ogni relazione!

A presto
Genna


Gennaro Romagnoli
Gennaro Romagnoli

Mi chiamo Gennaro Romagnoli e sono uno Psicologo, Psicoterapeuta ed esperto di Meditazione. Autore e divulgatore di PsiNel, il podcast di psicologia più ascoltato in Italia. Se desideri sapere di più clicca qui.