Ti è mai capitato di conoscere qualcuno che inizialmente sembrava aperto e morbido ma poi, dopo poco si è rivelato esattamente l’opposto? Spesso capita anche il contrario: una persona ci sembra burbera e chiusa ma poi, dopo poco si apre e scopriamo che in realtà si tratta di un individuo dolce e comprensivo. Oggi parliamo di relazione e della loro gestione a partire da noi stessi, da come siamo fatti e come ci comportiamo utilizzando due metafore “vegetali”…

La relazione

Tutti gli esseri viventi presenti sul pianeta si sono evoluti grazie ad un qualche tipo di relazione o per meglio dire interazione. Nella nostra società attuale ci siamo quasi illusi di poter vivere “da soli”, che ognuno fa per sé e cose del genere, quando in realtà siamo la specie che ha più bisogno degli altri. Ciò non significa che non dobbiamo imparare ad essere autonomi (come abbiamo visto un sacco di volte trattando questo tema) ma ci serve per evitare l’illusione di poter vivere senza gli altri. La qualità delle nostre vite è direttamente proporzionale alla nostra capacità di gestire le nostre relazioni.

Per quanto si possa fare gli eremiti noi esseri umani abbiamo la necessità di stare a contatto con il prossimo e questo, oltre ai molti svantaggi che possiamo immaginare porta anche a numerosissimi vantaggi. Il primo in termini evolutivi è il nostro splendido cervello, sono in molti ad ipotizzare che sia stata la socialità a far espandere il nostro splendido encefalo nella maniera odierna. Avere a che fare con gli altri è croce e delizia ma è il terreno di gioco più rilevante della nostra esistenza, in punto di morte praticamente tutte le persone pensando alla qualità delle proprie relazioni. Non pensano ai soldi, alle cose ma alle persone!

Fatta questa dovuta introduzione su cosa lavoriamo quotidianamente, consapevoli o meno, che riguarda le relazioni? Su di noi e in particolare su quella parte che potremmo chiamare per semplicità carattere (anche se tecnicamente dovremmo fare diversi distinguo tra carattere, tratto e temperamento). Ognuno di noi tende a rispondere nelle relazioni in base a diversi fattori, alla propria genetica, allo stile di attaccamento, alle esperienze rilevanti, all’ambiente in cui è cresciuto, insomma fin troppe variabili a cui pensare da soli.

Però cercare di capire se tendiamo a proteggerci può aiutarci a capire, può diventare un riduttore di complessità utile per farci capire velocemente in che posizione siamo. Per quanto sia una semplificazione la differenza tra avere la scorza dura e il cuore caldo o viceversa può essere un’utile indicazione sia su noi stessi che sugli altri. Per prima cosa non si tratta di un giudizio di valore, cioè non è che una persona Albicocca sia migliore di una Cocco e viceversa, entrambe sono metafore di modi di funzionare che possono rappresentarci molto facilmente e quindi aiutarci a conoscerci meglio.

Da questo punto di vista possiamo affermare che uno degli scopi della vita sia proprio quello di lavorare sul proprio carattere. So che questa frase può far storcere più di un naso, tuttavia la ritengo molto rilevante alla luce della mia età attuale, se per caso hai meno di 30 anni difficilmente ti porrai quesiti del genere e probabilmente attribuirai altri scopi alla tua esistenza. Ma una cosa è certa, la vita è un processo di apprendimento, che lo si voglia o meno, c’è chi cerca di farne tesoro e chi meno, una cosa è certa quando arriveremo alla fine queste differenze saranno rilevanti.

Self-made man

Diverse volte abbiamo detto che il self-made man alla americana è un mito, il che non significa che non si debba imparare ad essere più autonomi e capaci di agire sul mondo. Ma significa che illuderci di poter fare tutto da soli non solo è, per l’appunto una illusione, ma è anche pericoloso. Da un po’ di tempo a questa parte sto maturando l’ipotesi (non troppo innovativa ma credo utile) del fatto che questo desiderio di autonomia assoluta sia una caratteristica delle persone giovani. Anche io non vedevo l’ora di emanciparmi, di vivere da solo, di sentire di poter contare sulle mie forze (non succede a tutti ma a molti capita).

Ma la verità è che senza i miei genitori non avrei avuto le risorse per venire a studiare a Padova, senza di loro e senza il loro sostegno (seppur a distanza) non ci sarei riuscito nello stesso modo. Sì, sostegno a distanza, oggi che non ho più mia madre (chi mi segue conosce la triste vicenda) capisco bene cosa significa sentire il supporto di una persona anche se non è fisicamente presente. Sapere di poter chiamare quella persona in qualsiasi momento, sapere di avere un appoggio, un porto sicuro a cui tornare fa una grossa differenza… anche se giochiamo a fare quelli indipendenti.

Fino a qualche anno fa c’era la narrazione dei bamboccioni, ragazzi immaturi che si fanno mantenere dalle famiglie, una sorta di mammoni 2.0. Poi abbiamo capito che quella situazione era una sorta di campanello d’allarme, era una condizione obbligatoria (e la è ancora) se facciamo un confronto con le risorse per emanciparsi di qualche anno fa rispetto a quelle di oggi. Con questo discorso che sta per diventare fin troppo sociologico e politico, voglio solo continuare a ribadire che ognuno di noi nasce in una realzione, anche quando questa è lontana e sembra poco presente.

E che la capacità di mantenere e creare relazioni sane non sia solo un modo per vivere pacificamente ma sia il vero modo di vivere. In altre parole cercare di migliorare il nostro modo di interagire con il prossimo non serve solo per vivere bene e in pace, non serve neanche per avere la capacità di ottenere ciò che vogliamo (l’aspetto persuasivo della comunicazione) serve per poter collaborare e costruire insieme, perché senza gli altri noi non ci siamo, perché senza il noi tu non esisti, anche se una strisciante narrazione ci illude che le cose stiano così e ora la vediamo meglio.

Potrà sembrare assurdo ma autonomia e relazione non sono due poli opposti. Senza la capacità di essere autonomi facciamo fatica ad entrare in relazione, senza relazioni buone facciamo fatica ad essere autonomi. Non è solo un gioco retorico o la logica degli opposti è una questione talmente sottile che facciamo fatica a riconoscerla: solo un individuo autonomo è in grado davvero di collaborare con il prossimo, chi è dipendente non collabora, solitamente esegue. Lo so anche questa è una generalizzazione ma l’esempio più semplice è sempre lo stesso: la forza di una squadra è proporzionale alla forza dei singoli elementi messi assieme.

L’unione non fa la forza… tentate soluzioni

La verità è che l’unione non fa (solo) la forza ma fa praticamente tutto! Ecco perché è fondamentale imparare a riconoscere come funzioniamo e come ci difendiamo. Perché questa metafora è così potente? Perché parla di difese, per quanto nel mondo della crescita personale siano in molti a parlare male di personaggi come Sigmund Freud, in pochi sanno quanto è stato geniale il suo lavoro. Tra le molte cose che ci ha lasciato una è il concetto di meccanismo di difesa, che in chiave moderna possiamo vedere anche come “tentata soluzione disfunzionale”…

Dato che è quasi impossibile risalire alle cause prime di un fenomeno, cioè quando osserviamo ad esempio una persona che urla e cercassimo di capire come mai potremmo perderci nella complessità della circolarità delle interazioni. Urla perché è pazzo o perché qualcuno gli ha schiacciato il dito del piede? Urla perché non sa gestire le emozioni o perché ha imparato questo registro dai genitori? Urla perché qualcuno prima di lui gli ha urlato e noi vediamo solo questa parte della sequenza oppure c’è altro sotto? Non si tratta di fare filosofia si tratta del fatto che le faccende umane sono così complesse da non essere quasi mai lineari.

Cioè non esiste una linea continua che va da una causa precisa e si estende ai suoi effetti. Come ci dice Sapolsky nei suoi splendidi libri: potremmo risalire a secondi, giorni, anni, secoli, millenni, prima che quella persona faccia una deteraminata azione e trovare un filo conduttore nello scorrere di tutto quel tempo. Così quei geniacci di Palo Alto negli anni 70′ affidandosi alle allora emergenti teorie sulla cibernetica si sono chiesti: ma se non posso trovare la causa principale come posso influenzare il sistema e capirlo? Non guardo più che tipo di input ha fatto partire il tutto ma osservo l’output, cioè la tentata soluzione o meccanismo di difesa.

Ciò non significa che seguendo un percorso, magari anche guidato da un bravo professionista, tu non possa ragionare su tutte le con-cause possibili, tuttavia non sempre utile farlo, soprattutto se vogliamo migliorarci. Cioè è più semplice andare a vedere come ci difendiamo e cercare di diventarne consapevoli e di tanto in tanto, tirare giù le difese. Questa, ci tengo a sottolinearlo non è una ricetta per una psicoterapia ma per una crescita personale sostenibile e in alcuni casi, anche per la psicoterapia, la quale non sempre necessita di uno scavo alle cause primigiene.

Perché tante metafore?

Per rispondere a questa domanda dovremmo fare un’altra puntata ma essenzialmente le metafore hanno diversi poteri su di noi. Il primo da tenere a mente è che si tratta spesso di storie, e il nostro cervello ama le narrazioni, al punto tale che se vogliamo fare si che una cosa ci resti in mente è meglio raccontarla come una storia. Lo sapevano bene nella tradizione orale antica, la quale veniva tramandata proprio sotto forma di storie per questo preciso motivo. Quando racconti qualcosa in modo narrativo questa tende a conficcarsi nella mente non solo perché è efficace ma perché abbiamo una menta narrativa.

La nostra mente parla in modo narrativo, ci racconta delle cose. Questo non significa che il tuo pensiero siano le parole però si estrinseca nelle parole che ti racconti ma non solo, esistono categorie linguistiche che nascono dalla fusione tra mente-corpo e mondo in quel solco che da anni citiamo come “cognizione incarnata” (senza falsa modestia penso di essere stato il primo in Italia a parlare di questo concetto nella crescita personale, purtroppo non posso provartelo perché metà del mio blog è off-line ma se c’eri te lo ricordi… ciao Ego). Dato spazio al mio ego, perché è così importante questo aspetto incarnato?

Perché quando parliamo noi usiamo sempre metafore, le parole stesse sono metaforiche e, sottilmente veicoliamo informazioni che riguardano tali categorie. Ad esempio dato che i frutti solitamente sono in alto e le cose brutte sono in basso, guarda caso tutto il mondo dice “sentirsi su o sentirsi giù” ecc. Se a questo ci mettiamo dentro gli archetipi junghiani abbiamo fatto una bella insalatona mista per raccontare qualcosa di molto semplice: le metafore toccano il cuore del nostro modo di pensare e di sentire. Lo avevano capito i retori, i poeti e i musicisti di praticamente ogni epoca.

Ecco perché vederti come una albicocca o un Cocco non è un semplice gioco di identificazione ma è un promemoria per tenere a mente come tendiamo a presentarci e come tendono a farlo le persone intorno a noi. Ci ricordano che nella comunicazione non c’è una cosa giusta e corretta ma esiste una danza tra noi e i nostri interlocutori, che di tanto in tanto siamo noi quelli che fanno barriera e altre volte sono gli altri. Che di tanto in tanto siamo noi a presentarci duri come cocchi perché temiamo che venga scoperta la nostra parte vulnerabile e in altre occasioni facciamo le albicocche.

Le metafore e le analogie (come avevamo anche visto in questo episodio) diventano strumenti di riduzione della complessità e anche di salti logici, cosentendoci di fare ragionamenti analogici in campi che non conosciamo usando ciò che già conosciamo.

A presto
Genna


Gennaro Romagnoli
Gennaro Romagnoli

Mi chiamo Gennaro Romagnoli e sono uno Psicologo, Psicoterapeuta ed esperto di Meditazione. Autore e divulgatore di PsiNel, il podcast di psicologia più ascoltato in Italia. Se desideri sapere di più clicca qui.