Un qualsiasi “matto che si rispetti” lo si riconosce immediatamente proprio da tale caratteristica: parla da solo! Questa è una delle versioni più stereotipiche della psicopatologia.
Nella puntata di oggi vedremo insieme perché “parlare da soli non è da matti” e perché rendersi conto di quando lo facciamo può dirci tanto su noi stessi.
Buon ascolo
Leggere a voce alta
Oggi sono in pochi a leggere a voce alta, quasi tutti leggiamo “a mente” o più correttamente usiamo la lettura endofasica. Un tipo di lettura che secondo molti storici si è evoluta nel tempo, per secoli se non per millenni abbiamo letto a voce alta.
I motivi sembrano molti, il primo è legato alla punteggiatura che un tempo era meno presente, per tanto ogni testo doveva essere necessariamente interpretato. Inoltre un tempo pochi sapevano leggere e i libri costavano cari, per tanto la lettura era un’azione comune, era uno spreco “leggere solo per se stessi”.
Ad attirare l’attenzione degli storici su tale ipotesi fu Agostino di Ippona (S. Agostino) nelle sue Confessioni in cui descriveva un Ambrogio (S. Ambrogio) intento in un modo particolare di lettura: “Nel leggere, i suoi occhi correvano sulle pagine e la mente ne penetrava il concetto, mentre la voce e la lingua riposavano”.
Questa è solo un’ipotesi ma ci aiuta a capire che un tempo, vedere una persona per strada che parlava da sola, forse era molto meno scandaloso di oggi. Magari stava ripassando qualche verso di una poesia o qualche calcolo da fare a mente oppure, stava semplicemente ripetendo ciò che aveva letto.
Se oggi entri in un luogo pubblico e ci trovi una persona che legge a voce alta un libro, cosa pensi? Per prima cosa pensi che abbia qualche problema di lettura, come seconda cosa pensi sia un po’ maleducato e se lo fa a voce troppo alta, non avrai dubbi, “quello lì non è proprio apposto”.
Il rapporto con l’oralità
E’ quindi molto probabile che qualche secolo fa la maggior parte della gente, in grado di leggere, lo facesse a voce alta. Questo fa ipotizzare, che forse, sentire una persona che parlava tra se e se non fosse così assurdo come la immaginiamo oggi, anche perché i concetti di “psicopatologia” erano molto diversi.
Come abbiamo già visto molte volte, parlare ad alta voce con noi stessi capita proprio in momenti difficili, quando abbiamo bisogno di tutte le nostre risorse cognitive. Nella puntata ti ho parlato di quando si guida in situazioni sconosciute ma può capitare anche in molti altri contesti, come ad esempio in “stazione”.
Hai mai guardato qualcuno visibilmente trafelato che osserva il tabellone degli orari del treno? Se è abbastanza in ritardo è possibile che tu possa sentirlo bofonchiare: “treno per Milano sul binario 3, ok devo sbrigarmi”. Anche in questo caso notiamo come il linguaggio assolva ad una delle sue funzioni: organizzare i piani di azione.
Parliamo tra di noi quando dobbiamo architettare piani di azione complessi, che magari abbiamo svolto poche volte in precedenza. Insomma parlare non serve solo per comunicare con gli altri, la sua funzione più comune e conosciuta, ma anche per organizzare in un qualche modo il nostro modo di pensare, che è estremamente caotico (vedi la puntata su “Ordine e disordine nei pensieri”.
Insomma tutti parliamo ad alta voce in determinate condizioni, anzi è spesso essenziale per svolgere adeguatamente alcuni compiti, e questa non è una semplice ipotesi ma è il risultato di alcuni studi dedicati proprio al linguaggio interno, se si impedisce alle persone di parlottare diventano molto meno efficaci in compiti di selezione di nuovi stimoli.
Con chi stiamo parlando?
Molti filosofi si sono posti questa domanda e in particolare è emersa ultimamente tra le storie di instagram mentre commentavo il libo di Sam Harris “Waking Up”. Il quale ci porta a chiederci “a chi stiamo parlando” quando di colpo ritroviamo qualcosa che abbiamo appena perso?
Potremmo fare molte ipotesi ma la più semplice è che semplicemente, quel parlare non siamo noi ma è una nostra funzione. Ora so che qualcuno penserà: “bravo hai scoperto l’acqua calda” eppure la maggior parte dei nostri problemi psicologici sorgono quando iniziamo a vedere quel parlottio, ciò che ci diciamo, come una parte integrante di noi stessi.
Il problema non è se di tanto in tanto ti dici: “sono proprio uno stupido” ma il fatto che tu possa crederci ciecamente, come se quella voce rappresentasse tutto te stesso. E’ la nostra identificazione, quando in realtà quella voce è solo una ipotesi sul mondo, una parte di te che ti aiuta a muoverti nel mondo… e non il mondo stesso.
Lo so sembrano cose strane ma se hai mai provato i miei esercizi di meditazione sai che le cose stanno esattamente così. Mentre mediti vedi tutto il mondo dei pensieri, anche molto diversi tra loro, che ti passano davanti come miriadi di ipotesi sul mondo, su te stesso e sugli altri.
Ma riesci a vederle per ciò che sono: ipotesi. Quando invece sei nel tuo mondo ordinario quelle idee possono diventare come sentenze inderogabili, se ti sei appena dato dello stupido significa che “sotto sotto ci credi per davvero ed è molto grave, è meglio che inizi a dire a me stesso che sono bravo e forte, come dicono quei libri di crescita personale”.
Per molti filosofi e praticanti di meditazione, il fatto stesso che tu possa riconoscere che non stai “parlando davvero a nessuno” è una delle prove dell’inconsistenza del nostro “Sè” che per molti sarebbe una sorta di illusione mantenuta proprio dal continuo dialogare con noi stessi (e non solo).
Tu cosa ne pensi? Continuiamo questa discussione croccante nel nostro Qde.
A presto
Genna