Il termine “speranza” sembra uscito da un biscotto della fortuna o al meglio da un testo religioso, ed in parte è vero ma in realtà la speranza è una categoria che appartiene alla nostra specie per diverse motivazioni.
Forse avrai sentito dire a qualche intellettuale che è “solo” una categoria cristiana e/o religiosa tuttavia: senza speranza nel futuro la nostra specie non sarebbe sopravvissuta… ma questo è un dibattito aperto.
Nell’episodio di oggi vediamo questo meccanismo dal punto di vista della ricerca in psicologia, buon ascolto:
Una categoria religiosa
E’ vero il termine “speranza” è stato coniato in ambito religioso così come moltissime categorie che utilizziamo ancora oggi. Ma credere che sia una sorta di “oppio per i popoli” è sbagliato e prima di tuffarci nella psicologia vorrei chiarire questo aspetto.
Se mi segui da un po’ di tempo non ti sarà di certo sfuggito il fatto che per me i “dettami religiosi” non sono altro che una sorta di “saggezza acquisita e trasmessa” nei secoli. Si tratta di principi utili che abbiamo messo sotto il cappello di “divinità”.
In molti sappiamo che i 10 comandamenti sono più antichi della religione ebraica e non è difficile immaginare che si trattasse di regole di convivenza comune. Che tu sia religioso o meno vorrei mostrarti questo aspetto molto “terra terra” di qualcosa che per molti è invece “divino”.
Qual è il problema del vederlo solo come una cosa “religiosa”? Che solo i fedeli possono trarne vantaggio mentre in realtà è una cosa che può fare bene a chiunque. E’ chiaro che in quel contesto speranza significa “redenzione e vita eterna”.
A me piace pensare che ciò che è stato scoperto dai nostri antenati, sotto forma di storie, miti e religioni, sia uno dei tanti modi di trasportare “cultura”, intesa come “norme che regolano e facilitano la vita”. Una sorta di crescita personale ante litteram.
Il concetto è chiaro ma…
Usciti dalla trappola dell’aspetto religioso ed etimologico possiamo vedere la “speranza” come una delle qualità umane (e non solo) più importanti per la nostra sopravvivenza. La tendenza a proiettarci in un futuro sconosciuto, al punto tale che arriviamo ad un ennesimo ostacolo: la visione orientale.
Se mediti probabilmente hai simpatia per la filosofia orientale e saprai che per farlo al meglio “non stai facendo niente” in oriente la “speranza occidentale” è vista come una sorta di voler controllare l’incontrollabile, di voler controllare la natura delle cose che è di per sè incontrollabile.
Per questo dicono: “chi spera dispera”, lo hanno detto anche i nostri filosofi perché per quanto mi riguarda, ripeto, siamo tutti esseri umani e siamo tutti intenti nella ricerca del benessere personale. E in tale ricerca siamo arrivati più o meno a conclusioni simili.
Oggi grazie alla ricerca possiamo testare quelle varie conclusioni, per questo ho battezzato la mia meditazione “scientifica”, non perché sia realmente testata in laboratorio con tutti i crismi della ricerca ma perché da lei trae ispirazione. (E poi si, dentro ci sono cose testate anche in laboratorio).
La ricerca di Seligman non aveva alcuna mira trascendentale, non veleva dimostrare la potenza della speranza, ma il contrario: il fatto che nelle dovute condizioni tutti possiamo sperimentare “disperazione” e che esiste un mindset che potremmo definire “protettivo” ed è ciò di cui ci siamo occupati nell’episodio odierno.
La sensazione di essere in grado
Se proprio non ami il termine “speranza”, cosa del tutto comprensibile, lasciami virare leggermente l’etichetta verbale per chiamarla: sensazione di essere capace, di essere in grado. Infatti il tipo di “speranza” di cui ci stiamo occupando è proprio questa.
Più che “speranza” potremmo quindi definirla “fiducia” in noi stessi, cioè fiducia nel fatto che quelle azioni che stiamo compiendo porteranno un effetto, un risultato e/o un cambiamento nella nostra realtà circostante. L’abbiamo vista diverse volte anche come “auto-efficacia”.
Ma il suo effetto in termini molto semplici è quello di dare “speranza o togliere speranza”, si mentre scrivo questo post mi rendo conto del fatto che avrei fatto meglio a chiamarla direttamente “auto-efficacia” ma succede, per cui proseguiamo con questo termine troppo ambiguo.
Perché in fin dei conti quando vedi una persona che continua a tentare, mettiamo un esame, ma purtroppo continua a fallirlo, pensi subito che quella persona abbia “perso ogni speranza” e non dici: guarda quella li non ha più auto-efficacia sufficiente per proseguire con i tentativi!
Lo so sembra strano ma è così, tendiamo a pensare che quella persona abbia invece perso “speranza”, qualsiasi cosa significhi. E come abbiamo visto nella puntata significa che ha subito “troppi fallimenti” ed ha iniziato a spiegarseli in un modo molto particolare.
Lo stile esplicativo
Questa teoria di Seligman ha più di mezzo secolo, infatti su Psinel ne abbiamo parlato allo sfinimento ma è talmente valida da poterci mostrare come e perché, in un periodo come questo, caratterizzato da una sorta di “impotenza collettiva”, chiunque possa sentirsi atterrito.
Nuovamente la scienza non fa che testare cose che già abbiamo visto nella nostra vita, altrimenti non nascerebbero le famose “ipotesi sperimentali” cioè le intuizioni, tratte spesso dall’osservazione, che danno vita agli esperimenti in qualsiasi campo.
Così tutti sappiamo che di fronte a ripetuti fallimenti tendiamo a “mollare” e al contrario, di fronte ad una bella sfilza di successi, tendiamo a motivarci e a costruire convinzioni positive su noi stessi nei confronti di quella specifica abilità.
Il momento in cui ci troviamo, per quanto possa apparire a molti come una lunga e piacevole vacanza, ha tutte le carte in regola per farci perdere la sensazione di auto-efficacia. E non c’è bisogno di certo di uno psicologo per comprendere quanto possa essere pericoloso.
Sentirti “efficace e in grado” non è solo una bella storia da raccontarsi ma è anche una sorta di necessità, un bisogno primordiale che ci portiamo dietro dalla notte dei tempi e che in un qualche modo siamo sempre riusciti a portare avanti.
Fino quando tutto va bene…
Fino a quando le cose ci vanno bene: quando abbiamo un lavoro, una famiglia, degli amici ecc. è facile dimenticarsi completamente di questi concetti, tanto è la vita stessa che ci circonda a sostenere le nostre azioni, anche se non ce ne rendiamo conto.
Poi quando una di queste cose viene a mancare all’improvviso ecco che il mondo cambia, ed è a quel punto che le cose possono iniziare a cambiare. Tutto questo è stato evidente negli studi di Ellen Langer sugli anziani e sulle loro capacità decisionali.
Immaginiamo spesso che gli anziani siano una sorta di “persone non persone” che ormai hanno fatto il loro tempo e stanno lasciando il passo alle nuove generazioni. Ma in realtà anche in quel caso c’è un forte desiderio di affermazione dei propri valori e delle proprie conoscenze.
Quando la Langer scopre che basta fargli decidere cosa mangiare per cena o che tipo di attività fisica fare il pomeriggio, la scoperta sembrava quasi una sorta di banalità: “beh è ovvio che scegliendo le persone si stentano maggiormente protagoniste della propria vita”.
No, non è ovvio per nulla, certo con il “senno di poi”, conoscendo questi concetti è facile giungere a conclusioni simili, ma quando se ne rese conto la Langer non era ovvio per nulla. Soprattutto se pensi che l’esercizio funziona non solo sugli anziani ma anche su di noi.
Le piccole cose
Cosa ancora meno ovvia è il fatto che basti pensare ad una piccola decisione quotidiana per sentirsi già maggiormente protagonisti e di conseguenza contrastare l’effetto dell’impotenza appresa di questo periodo storico.
Piccole decisioni che in realtà prendiamo ogni giorno, solo che nella fattispecie tale consapevolezza non c’è, perché le prendiamo “come” in automatico, ma non è vero, non sempre sono automatiche.
Tu puoi pensare di aver scelto in automatico, per abitudine, l’impresa di leggere tutto questo post. Ma se sei arrivato fino a qui è chiaro che in realtà TU hai scelto di proseguire con la lettura, tu stai scegliendo di seguire questi consigli (o per lo meno lo stai valutando).
La cosa è talmente sottile da sfuggire al nostro sguardo, per fortuna c’è la ricerca empirica che prova quanto sia utile aumentare la consapevolezza sulle nostre decisioni quotidiane. Anche quando non sono state intenzionali al 100%!
Ciò che conta non è solo l’intenzionalità, che sicuramente gioca un ruolo importante, ma ciò che più conta è il fatto di rendersi conto di aver scelto in autonomia. Di avere ancora “voce in capitolo” e nota che questa metafora del libro è molto interessante.
Ma visto che il tema è davvero ancora molto arzigogolato continueremo a parlarne nel Qde e lo faremo proprio a partire da questa analogia con la lettura e con i libri… si perché abbiamo ancora TUTTI voce in capitolo!
A presto
Genna