Una delle storie Zen più famose in assoluto parla di un professore occidentale alle prese con un maestro Zen. L’intento del professore è di comprendere lo Zen, durante questo processo il maestro inizia a versare il Tè nella tazza del visitatore. Ma invece di fermarsi quando la tazza è colma continua fino alla fuoriuscita del liquido…
Questa è una potente metafora sull’importanza di fare spazio, di creare il vuoto affinché possa essere riempito. Nella puntata di oggi parliamo di cosa significhi realmente “svuotare la mente”…
Svuotare la mente
La prima cosa che è necessario che vi dica è che “io amo lo Zen“, nel senso che è una delle filosofie che più mi hanno affascinato da quando mi sono messo a studiare e praticare la meditazione. Quindi quando do la mia interpretazione a qualcosa che per molti è quasi “sacra” so bene di rischiare un linciaggio pubblico (anche se ovviamente spero non accada). Quindi metto le mani avanti e invito chi possa sentirsi offeso in un qualche modo a lasciare un commento qui sotto…
Di solito, quando in oriente si parla di svuotare la mente non si fa davvero riferimento ad uno “svuotamento” ma al fatto di riuscire a mettere da parte le rappresentazioni mentali per vivere in modo maggiormente diretto l’esperienza. Anzi sta anche a sottolineare il primato dell’esperienza sull’intelletto, significa: smettila di accumulare informazioni ed inizia a vivere quella pratica, smettila di leggere libri che parlano di viaggi e viaggia.
Tuttavia la cattiva interpretazione di questa storiella serpeggia tra di noi, soprattutto in questo periodo storico nel quale, l’eccesso di informazioni ci ha ormai del tutto convinti di qualcosa che già alcuni denunciavano: conoscenza non significa accumulo di informazioni. Quindi, dato che oggi abbiamo ogni tipo di informazione “in tasca” (con lo smartphone letteralmente) crediamo che non sia necessario studiare certe cose, perché tanto “vince la mente sgombra”.
E invece sono qui a dirti che non vince la mente sgombra ma quella preparata. Per capire le parole che stai leggendo, di certo devi mettere da parte le distrazioni (sgombrare la mente) ma se non conosci l’italiano, non conosci i termini che stiamo utilizzando e non sai cosa sia la psicologia, è molto difficile che tu possa capire qualcosa. Se la mente fosse una tazza la conoscenza dell’italiano sarebbe un liquido contenuto nel recipiente o sarebbe il recipiente stesso?
La risposta corretta sarebbe: nessuno dei due, in vero stile Zen tra l’altro, ma il punto è questo, la metafora della tazza non rende onore a questi complessi meccanismi. In realtà la conoscenza che entra e viene filtrata dal recipiente, il quale a sua volta si modifica in base al tipo di informazioni che filtra. E’ un hardware (la tazza) che si modifica sulla base delle informazioni che recepisce (software)… tra l’altro se ci pensiamo bene neanche la metafora informatica calza, non esistono computer che si comportano così.
La mente è un riconoscitore di pattern
La nostra mente ha come peculiarità quella di riuscire a cogliere le ricorrenze che circondano, una volta che ha reso una certa esperienza sufficientemente prevedibile si accontenta e usa quella conoscenza. Diciamo da sempre che la nostra testa è un simulatore che tenta costantemente di prevedere ciò che accadrà, ma è anche un “economo” che cerca costantemente di risparmiare energia.
Ciò che fa la nostra “tazza” non è riempirsi ma è diventare sempre più brava a comprendere le ricorrenze (i pattern) a furia di gestire un certo materiale. Tutto questo sembra una bella filosofia, ma oltre ad esistere numerose prove neuroscientifiche (cioè che includono la fisiologia del sistema nervoso) oggi abbiamo un’altra prova incredibile: il funzionamento dell’intelligenza artificiale generativa.
Il famoso Chiat-GPT fa esattamente questo: le conoscenze che possiede non fanno riferimento a domini specifici ma al fatto di poter prevedere la prossima parola e se per caso l’hai utilizzata, sembra proprio di avere a che fare con una “intelligenza”, non è vero? Queste IA vengono addestrate a prevedere quale parole sarà più probabile, non a capire il tema specifico di cui si sta parlando ma a cercare di prevederlo.
Per questo spara un sacco di cavolate, funziona esattamente come funzioniamo noi: se una cosa non la sappiamo tendiamo ad inventarcela. Certo non è una invenzione di sana pianta, ma si basa sulle esperienze passate, cioè sulla quantità e qualità di “tè” che è passato dentro la tazza. Questa è anche l’origine della maggior parte dei nostri famosi Bias i quali si servono di questo sofisticato sistema di predizione per… risparmiare.
Ergo la nostra tazza non di dovrebbe svuotare ma dovrebbe imparare a riconoscere i pattern. E per farlo è necessario fare esperienza, ed è qui il vero bandolo della matassa, ciò che secondo me dice realmente questa metafora, tecnicamente per noi psicologi è: cercare di stare nel “sè esperienziale e non in quello narrativo”. Per tutti… uscire dalla testa per vivere nel mondo.
Uscire dalla testa per vivere nel mondo
Per quanto mi riguarda quel Koan non dice: smettila di studiare e di riempirti la testa ma dice, smettila di stare nella tua testa pensando di aver capito, metti a parte ciò che pensi di sapere… in una sola frase, acquisisci la mente del principiante. Lo scopo principale di queste storie è proprio questo, il cercare di farci uscire dalle gabbie delle nostre categorie mentali per osservare le cose come se fosse la prima volta, il che implica grandi cambiamenti… “illuminanti”.
Ed il tema dell’illuminazione orientale è vicinissimo dato che molti praticanti nello Zen si sono illuminati proprio ascoltando storielle simili. Ovviamente le cose sono più complicate di così, non sono le sole storie a farlo ma tutto ciò che le circonda, comprese le ore e ore di meditazione praticate. Tecnicamente lo scopo di queste pratiche è di farci disidentificare dal nostro flusso di pensieri riuscendo a raggiungere una posizione particolare che ci consente di osservarli.
So che questa cosa può sembrare strana o addirittura impossibile, ma ti assicuro che con l’esercizio della meditazione è realmente possibile rendersi conto del fatto di “non essere i nostri pensieri”. Non si tratta di una semplice nozione razionale, anche se la comprendessi leggendomi non sarebbe la stessa cosa di viverla, sperimentarla. Solo con la meditazione succede? No, però l’addestramento per stabilizzare tale consapevolezza passa di certo da questo training millenario.
Significa che di solito non viviamo nel mondo? No, però tendiamo ad anteporre i nostri schemi al mondo per risparmiare energia e per altre situazioni tipiche del nostro modo di pensare. Lo Zen e in generale le pratiche di meditazione di derivazione Buddista hanno la caratteristica di farci vivere nel momento presente. Ne abbiamo parlato un sacco di volte… non tutte le forme di meditazione sono uguali, ascolta questo episodio.
Per chi non conosce questi temi è necessario spiegare che questa capacità di vivere nel mondo può essere espansa ed amplificata. Quando sentite parlare di “meditazione comprovata dalla scienza” di solito si fa riferimento a questo tipo di pratiche, che per dirla con la nostra metafora: si occupano di farci sapere cosa c’è dentro la nostra tazza ed eventualmente svuotarla (temporaneamente).
Le metafore non si spiegano
Uno dei miei maestri nella psicoterapia diceva spesso: “le metafore non si spiegano“. Come puoi immaginare raccontare metafore è parte del lavoro dello psicoterapeuta. Le metafore hanno il potere di attivare il nostro cervello in modo potente e sottile, un esempio classico è quando qualcuno ti chiede se hai “afferrato un concetto”. Hai presente?
Ecco se hai davvero presente cosa significhi “afferrare un concetto” devi sapere che mentre ci pensi stai letteralmente attivando le aree pre motorie per “afferrare qualcosa”. La metafora (in parte tutto il linguaggio è metafora) ha questo super potere e noi psicologi ne facciamo ampio utilizzo da molto tempo. Ecco uno dei miei maestri diceva che per massimizzare l’effetto delle metafore è bene non spiegarle.
Sembrerà strano ma ora che hai afferrato il concetto di afferrare… il tuo cervello è come se “afferrasse di meno”. La metafora attiva meccanismi impliciti, inconsci ed è bene che lavori silenziosamente… dunque spiegandoti questa storia della tazza ho rovinato qualcosa di potente? Secondo me no, primo perché il consiglio del mio maestro faceva riferimento ad una situazione terapeutica, nello studio, dove le metafore sono personali.
E secondo perché interpretarla male, cioè come il fatto di non studiare, evitare di riempire la testa con concetti, è più pericoloso del suo disvelamento. Le metafore non sono armi da lanciare a caso nella speranza che attecchiscano da qualche parte, ma sono semi che vanno piantati nel modo giusto al momento giusto. Questa faccenda però è implicita nella storiella Zen, ma è chiaro che si tratta di qualcosa di molto personale e non di generale per tutti.
Quando l’elité è “intellettuale”
Ora vorrei chiarire alcune frasi che hai ascoltato nella puntata, soprattutto quelle relative alla nuova Elitè del nostro tempo. Cosa c’entra questa storia della tazza vuota? Parecchio, soprattutto se leggiamo la quella storia così: “Se ti riempi troppo la testa di teorie e conoscenze non sarai più in grado di leggere accuratamente la realtà”.
Oggi ci troviamo in un periodo molto particolare nel quale il fatto di avere la conoscenza a disposizione ci illude di non aver più bisogno né di studiare e né di chi ha studiato. L’elité di oggi non sono più le persone che sono nate ricche, che hanno contatti altolocati ecc. ma sono persone che come me hanno studiato e si sono guadagnate un qualche titolo professionale.
Non mi credi? Fai questo esperimento, vai al bar e racconta una tua disavventura con un professionista. Che sia un avvocato, un medico, uno psicologo, un architetto… racconta (anche inventando) un danno che pensi di aver ricevuto da queste figure e nota cosa succede. Spoiler, un sacco di altre persone ti inizieranno a raccontare storie dell’orrore su quella professione, spesso storie che hanno solo ascoltato e non vere esperienze.
Non sto dicendo che le storie siano tutte inventate, di certo ci sono professionisti meno preparati di altri e persone che hanno subito danni anche importanti. Tuttavia sono pronto a scommettere che si tratta spesso dell’effetto “albero che casca“, il quale fa molto più rumore della “foresta che cresce”. Il nostro cervello è progettato per esagerare (al fine di) ricordare gli eventi negativi rispetto a quelli positivi.
Se sei andato 50 volte dal medico e 1 volta sola è successo qualcosa di negativo, stai pur certo che sarà quella lì il ricordo che rappresenterà il rapporto terapeutico. E non le altre 49 volte dove non è successo niente o addirittura ti hanno salvato la vita! Nonostante si abbiano così tante informazioni a disposizioni siamo forse in uno dei periodi con il minimo della fiducia nei confronti di chi ha studiato, quando dovrebbe essere il contrario.
Una splendida metafora come questa dovrebbe risvegliarci non renderci timorosi di come e cosa stiamo apprendendo. Purtroppo oggi viene usata troppo spesso per questo secondo motivo, modificando di non poco il suo vero significato… tu cosa ne pensi?
A presto
Genna