Esiste un numero esatto di ore di pratica da dedicare alla meditazione per ottenere risultati tangibili? Questa è una domanda legittima che fa arrabbiare i puristi della pratica.

Ma in realtà è davvero legittima perché se vogliamo studiare qualcosa da un punto di vista scientifico dobbiamo anche cercare di capire i “suoi tempi”.

Nella puntata di oggi vedremo tutti questi numeri, che come sempre non sono farina del mio sacco ma di quella di ricercatori ultra competenti…

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I numeri della meditazione

Se sei un praticante di meditazione e sei finito per caso su questa puntata è molto probabile che il discorso dei “numeri” non ti piaccia per niente. Dopotutto la meditazione non dovrebbe avere “obiettivi”.

Tuttavia, come ripetiamo da tempo, se dobbiamo realmente studiare qualcosa è anche necessario cercare di utilizzare dei parametri che ci consentano di fare “qualche misurazione”.

Se poi tale misurazione viene fatta da Daniel Goleman e Richard Davidson le cose diventano ancora più interessanti. Perché nel caso non lo sapessi sono entrambi due assidui praticanti di meditazione.

Oltre ad essere due psicologi esperti in modo diverso di ricerca e di divulgazione scientifica. Trovi tutti questi numeri nel loro bel libro “La meditazione come cura” o “altered traits” in originale.

Quindi i “numeri” che hai ascoltato non arrivano dalle torri di avorio di ricercatori che non sanno la differenza tra i tipi di meditazione ma da due ferventi praticanti.

Tratti alterati

Il vero titolo del libro di Davidson e Goleman è “tratti alterati” perché si cerca di capire se i benefici della meditazione siano “effetti di stato”, cioè momentanei o “effetti di tratto”.

Il che non significa permanenti ma duraturi, anche se in un qualche modo potremmo dire “permanenti”. La cosa interessante è che con questo termine “tradizione e ricerca si sposano”.

Nella tradizione la pratica porta alla “liberazione” o illuminazione che viene spesso descritta come uno stato permanente. La persona liberata dalla sofferenza viene tradizionalmente vista come sempre così.

Anche nella ricerca sul cambiamento personale, soprattutto la psicoterapia, sappiamo che è possibile creare cambiamenti permanenti. Solo che ovviamente è difficile parlare di “permanente” quando si ha a che fare con l’essere umano.

Che è per definizione un essere in divenire e dalla pratica clinica sappiamo anche che non è così facile. Che spesso è necessario passare da nuovi “stati” sino a quando non si trasformano in “tratti”.

Liberazione dalla sofferenza

Nel Buddismo originario, quello tratto dagli insegnamenti del primo “illuminato” si parla di sofferenza in termini squisitamente psicologici. Si certo il Buddha decide di lenire ogni sofferenza ma soprattutto quella “mentale”.

Meditando non ci si accorge che “mondo è illusione” come molti credono, ma ci si rende conto che il nostro modo di vederlo è illusorio. Sono i nostri processi mentali ad impedirci di osservare noi stessi e il mondo.

Visto che nella tradizione nessuno si “libera dalla sofferenza” senza praticare sembra plausibile immaginare che si tratti di qualcosa che ha a che fare con un “esercizio”.

Senza questo esercizio non ci sono cambiamenti, proprio come per tutto il resto dell’apprendimento umano. Anche nella tradizione ci sono “illuminazioni momentanee”, cioè effetti di stato ma non di tratto.

Ecco perché s’insiste sulla costanza nella pratica, proprio perché è un esercizio come tutti gli altri: se lo fai con costanza porta vantaggi enormi e duraturi, se lo fai ogni tanto “porta piccoli vantaggi effimeri”.

La “bacchetta magica”

E’ quasi superfluo (spero) ricordarti che il nostro cervello ha la dannata tendenza a risparmiare energia, lo fa per il nostro bene, per sopravvivere ed usare quelle forze nel momento del bisogno.

Tuttavia è proprio tale tendenza a farci desiderare che vi sia una “bacchetta magica”, che si possa praticare un pizzico di meditazione e stare bene per sempre.

Ma se ci pensi questo concetto non esiste praticamente in nessun ambito umano. Non esiste nessuna azione “leggera e veloce” che riesca ad incidere profondamente sulla nostra vita.

Nonostante questo esistono diverse pratiche, ed ognuna può portare grandi benefici anche senza “fare ritiri di 3 mesi” come quelli dei “campioni olimpionici della meditazione” accennati in puntata.

Così se vuoi restare in forma non è necessario passare 4 ore al giorno in palestra o farti fare delle “schede da iron man” ma ti basta andarci con una certa regolarità.

La consistenza

Hegel diceva che un fenomeno ripetuto nella sua quantità può modificare la sua stessa qualità. Spesso ci chiediamo se è meglio fare le cose con qualità rispetto alla quantità.

E’ chiaro che la qualità è importante, se fai gli esercizi sbagliati in palestra, anche in modo leggero, rischi di farti male e di acquisire cattive abitudini posturali e muscolari.

Tuttavia una volta individuata la “qualità” o la “modalità corretta” la quantità la fa da padrona. Hegel usa una analogia che a me fa sempre ridere visto che sono praticamente calvo.

Dice che se mi strappo qualche capello non succede niente, se invece me ne strappo troppi divento calvo. Umberto Galimberti usa un’altra analogia magari più calzante per i meno capelluti come noi.

Dice che se c’è un terremoto di secondo grado nella scala Richter non ce ne accorgiamo nemmeno, mentre se ne arriva uno del settimo grado tutto il paesaggio intorno a noi cambia.

Misurare

Quando Goleman e Davison (e tutti i ricercatori che vi hanno contribuito) hanno iniziato a misurare le ore di pratica hanno avuto una vera sorpresa, si aspettavano qualcosa del genere ma non di così profondo e netto.

Si aspettavano che tale misura avrebbe dato dei risultati, cioè più una persona ha praticato nella propria vita e più ha modificazioni evidenti nel “pensiero e negli atteggiamenti”.

Ma non avevano minimamente pensato a una sorta di gradualità così marcata, contraddistinta proprio dalla quantità di pratica. E tali modifiche non sono soggettive ma oggettive perché passano dalle “immagini”.

E per “immagini” non intendo la facoltà di immaginare ma intendo le misurazioni date da strumenti come la risonanza magnetica che è in grado di osservare i cambiamenti del cervello in tempo reale.

Loro stessi sono stati dei campioni di perseveranza, perché sapevano soggettivamente di poter misurare i cambiamenti ma hanno dovuto aspettare decenni prima che la tecnologia fosse disponibile.

La tecnologia

Come sai se mi segui da tempo l’uomo è un essere “tecnologico” nel senso che senza tecnica non sopravviverebbe. Tutto ciò che ci circonda è tecnica: i vestiti che indossiamo, le parole che usiamo ecc.

E da un punto di vista specifico anche la pratica più antica, la Vipassana, è una tecnica nata dall’esperienza del primo Buddha. Il quale ha provato prima altre metodologie e poi si è soffermato su di essa.

Proprio come se cercassimo il modo migliore per pescare, prima proviamo ciò che è già presente e poi cerchiamo di migliorarlo. Pochi ti parlano di questo aspetto, soprattutto nei campi dove viene esaltata la tradizione.

Quando in realtà il primo a rompere le tradizioni è stato propri il Buddha e tra le altre cose, anche gli illuminati successivi (gli altri Buddha) hanno fatto a modo loro piccole modifiche.

Oggi è normale pensare che si implementi qualcosa, che si parta dalle “spalle dei giganti” per guardare più lontano. Ma quando si parla di meditazione ci sono forti resistenze, è importante il lignaggio.

Meditazione e contemplazione

Le tecniche di meditazione esistono sin dalla notte dei tempi, sin dai primi rituali nati per propiziare il favore degli Dei. In alcune culture sono più evidenti gli aspetti di “presenza” e in altre quelli di “assenza”.

E alcune culture hanno entrambe le pratiche, sia quelle legate al restare nel presente e sia quelle adibite ad “uscire da se stessi” per entrare in modi “paralleli” e avvicinarsi “al divino”.

Le chiamiamo per comodità tecniche di “meditazione” ma potremmo chiamarle anche in modi diversi, anche perché il termine “meditazione” non rende giustizia e non descrive per nulla la pratica.

Forse il termine più adeguato è “contemplazione” ma la cosa importante da sapere è che tali metodiche sono antiche quanto l’uomo ed hanno da sempre lo stesso scopo: modificare il nostro stato ordinario di coscienza.

Non inteso come “trance ipnotica” (anche questo ma non solo) ma inteso come il riuscire a migliorare la condizione di coscienza che abbiamo normalmente.

Con l’intento di migliorarci… oggi sappiamo quali tecniche riescono a migliorare aspetti specifici della nostra mente e del nostro cervello, e anche quali sono i “numeri”, le quantità di ore necessarie.

Sta solo a noi praticare, individuare le tecniche che fanno maggiormente al caso nostro ed iniziare ad occuparci “seriamente” dello strumento migliore che possediamo… la nostra mente!

A presto
Genna


Gennaro Romagnoli
Gennaro Romagnoli

Mi chiamo Gennaro Romagnoli e sono uno Psicologo, Psicoterapeuta ed esperto di Meditazione. Autore e divulgatore di PsiNel, il podcast di psicologia più ascoltato in Italia. Se desideri sapere di più clicca qui.