Nel 2002 è stato pubblicato uno studio molto grande, condotto da diverse università per la durata di ben 23 anni. Lo scopo era monitorare la salute degli abitanti di una cittadina composta da 15000 anime.
15000 persone non sono tante per una Città ma sono moltissime come campione da cui partire, i risultati riecheggiano ancora adesso nelle antiche bacheche di Facebook. Avere un atteggiamento positivo nei confronti della vecchiaia garantisce 7,5 anni in più di vita!
Lo studio che non ci piace
Nonostante siano ormai 20 anni che conosciamo gli effetti del nostro atteggiamento sulla longevità, nonostante esso sia stato ripetuto con successo, ancora oggi quando pubblichiamo qualcosa del genere la gente si divide: sembra che a pochi piaccia l’idea di invecchiare, molti sembrano vederla come una perdita e non una conquista.
Mi sembra un atteggiamento naturale, tuttavia come diceva un mio professore scherzando: “sono felice di essere vecchio, l’alternativa è molto peggiore”. Nonostante oggi si viva in uno dei periodi migliori per la senilità, dal punto di vista assistenziale e medico, è una società dove non c’è spazio per il “vecchio” e per “i vecchi”.
Oggi vecchio non è sinonimo di saggezza, durata ed esperienza ma di perdita di funzioni cognitive, perdita delle funzioni sessuali, perdita della forza vitale e avvicinamento alla morte. Vederla in tal modo non è di certo incoraggiante, soprattutto se vediamo gli esseri umani non in quanto tali ma in quanto produttori di qualcosa.
Fino a quando produci, nel senso che sei utile a qualche cosa, ecco che hai un senso quando smetti di avere un ruolo “produttivo” smetti anche di essere “umano”. Questa faccenda per molti ha a che fare con l’industrializzazione ma secondo me è qualcosa di ancora più profondo ed antico.
E’ il risultato di uno squilibrio culturale: un tempo non sapevamo una mazza e pensavamo di poter sapere tutto affidandoci ad una sola cosa, la tradizione. La quale era composta di miti, religioni, e aspetti culturali che solo gli anziani potevano custodire e trasmettere adeguatamente.
L’età dell’oro
Tempo fa abbiamo dedicato una puntata a quello che mi piace definire “bias dell’età dell’oro“, cioè l’idea che avevano i nostri antenati (e oggi ancora qualcuno) che un tempo si stesse meglio, l’idea del buon selvaggio che viene deturpato dalla civiltà, ma se fosse rimasto in contatto con la natura, ecco che gli equilibri mistici si sarebbero mantenuti.
Personalmente credo poco a questa versione della storia, non vorrei vivere in nessun altra epoca se non questa. Il che non significa che questa sia perfetta ma solo che oggi abbiamo decisamente una mentalità diversa: rivolta al futuro e non solo più al passato.
Umberto Galimberti ama ripetere che questo è un effetto del Cristianesimo che ha inserito la categoria di “speranza” che prima non esisteva nel mondo ellenico. Mi permetto di dissentire, ci sono miti che dipingono la speranza e credo che essa sia un effetto della emancipazione della società legata alla scienza.
Da questo punto di vista sono molto più vicino alle posizione moderniste di chi vede tutto ciò che c’era prima della scienza e della emancipazione del pensiero dalla religione, come una sorta di infanzia intellettiva. Ti ricordo che per Keplero le stelle erano sfere perfette guidate da Dio! Stiamo parlando del 1600′ che in termini storici è “l’altro ieri”.
Di certo vedere solo gli aspetti della modernità è un altro disequilibrio, è chiaro che è bene guardare la propria storia, è chiaro che è bene affidarci anche alle tradizioni ma come base culturale non come limite umano da non valicare. Insomma credo che sia stata la perdita dei valori tradizionali con l’arrivo della scienza (e prima della filosofia, qui Galimberti ha ragione) ad averci dato (anche) “speranza”.
La conoscenza di un tempo
Per secoli abbiamo pensato di sapere molto di più di quanto ne sapessimo realmente. Eravamo convinti che tutto ciò che c’era da sapere fosse racchiuso nella Bibbia, tutto ciò di cui non parla significa che non è rilevante e probabilmente neanche esistente.
Eravamo convinti che la storia umana avesse qualche decina di migliaia di anni, fino a quando recentemente gli studiosi hanno iniziato a ricostruire la storia umana del pianeta, per scoprire che noi siamo apparsi davvero recentemente rispetto ai milioni di anni che ha la nostra amata terra.
Insomma si tratta di una danza continua, è sempre esistito chi ha provato ad immaginare qualcosa di diverso e di nuovo ed è stato “preso a male parole”, il che ha equivalso per un certo periodo alla morte. O per ostracismo o perché fisicamente la persona troppo dissidente con le idee vigenti, veniva uccisa.
So che queste cose potranno sembrarti strane rispetto al tema di oggi ma c’entrano tantissimo. Perché è proprio a causa di questa idea che un “tempo si stava meglio” che abbiamo da sempre avuto uno sguardo rivolto all’antichità come esempio mirabile di politica, società ed etica.
Di colpo scopriamo di poter analizzare e studiare le cose, questo ci ha portati di colpo ad abbandonare il passato per rivolgere il nostro sguardo esclusivamente al futuro e alla crescita. Ciò a tolto molto valore al passato e ai detentori di quella saggezza, cioè gli anziani.
Uno scontro senza tempo che oggi è in crisi
Lo scontro tra padri e figli esiste da sempre, ne abbiamo i racconti nella mitologia greca e non solo. Dunque la competizione fra nuovo e vecchio è una cosa antica, tuttavia solo negli ultimi decenni tale classico conflitto si è completamente sbilanciato, a causa della rivoluzione digitale.
Non è mai successo prima d’ora che i giovani possedessero così tante competenze in più, in un ambito altamente importante e rilevante per l’economia moderna, dei loro padri. Sono sempre stati “i padri”, i “vecchi” ad insegnare i trucchi del mestiere ai giovani, oggi è il contrario!
Erano i tuoi genitori e forse i tuoi nonni a spiegarti come scrivere una bella lettera da spedire, come imbustarla, dove recarti per spedirla ecc. Oggi sei tu che spieghi loro come mandare messaggi in privato sui social o come allegare un documento ad una email.
Questo disequilibrio, per quanto mi riguarda non è destinato a durare per sempre, prima o poi i “nativi digitali” diverranno anziani e potranno insegnare alcune cose ai giovani. Immagino che i primi ad aver provato ad usare il fuoco non siano stati degli anziani ma dei giovani, i quali erano più smaliziati e curiosi di innovare.
Poi questa tecnologia è entrata a far parte dei clan del periodo, e dunque è entrata nella tradizione, da quel momento c’è stata la restituzione del testimone dai giovani agli anziani. Insomma per quanto mi riguarda questo è un movimento tipico dell’evolversi di una società, non è una deformazione della nostra!
Torniamo alla nostra amata psicologia: il punto chiave!
Il punto chiave da cui partono tutti questi studi è molto bello: sociologi, antropologi e psicologi studiano da anni il tema del pregiudizio e degli stereotipi. Sappiamo da un sacco di tempo quanto questi possano influenzare i nostri atteggiamenti e le nostre opinioni, tutta la psicologia sociale del 900′ è caratterizzata da queste ricerche.
Se credo che una persona del sud sia mediamente più disonesta di una del nord, quando ci avrò a che fare tenderò a notare maggiormente tutte le cose disoneste che farà e a non badare tutte le cose oneste che farà. E’ un giochino interessante che ho imparato al mio primo anno di psicologia, il prof ci disse questo.
Immaginate che un vostro amico vi chieda di fare compagnia ad un altro amico che sta arrivando in Città. Siete molto amici, siete liberi e prendete una giornata per stare con lui/lei. Il vostro amico però vi dice di stare attenti, perché quella persona è brava e simpatica ma è molto tirchia.
Ecco che questa semplice informazione aumenterà la probabilità che voi vediate i suoi comportamenti da “braccino corto” e cancelliate o sottostimiate quelli da generoso. A questo pare un esperimento del genere è stato fatto sul serio, il ragazzo ospite era ovviamente complice dello sperimentatore.
Era addestrato ad essere generoso tutto il giorno tranne in alcuni momenti specifici, ad esempio prima di salutarsi il complice affermava di non avere soldi per il biglietto del bus e si faceva prestare qualche spicciolo. Tenendo presente che prima aveva offerto pranzi e molto altro…
Gli effetti degli stereotipi
Come puoi immaginare nella mente dei soggetti, coloro i quali accompagnavano il complice per la Città, restava una cosa sola: “bella giornata ma il ragazzo era davvero tirchio, mi ha chiesto il biglietto del bus”. Certo non tutti i partecipanti, alcuni (se non ricordo male) si resero conto che il ragazzo aveva offerto molto di più dei 4 spiccioli richiesti per il biglietto, ma la maggior parte NO!
Con questo esperimenti e molti altri i miei colleghi volevano provare il fatto che non è necessario che lo stereotipi sia già attivato dentro di noi, o che la persona appartenga ad una qualche “categoria” di persone normalmente vittime di questi giudizi, bastava una semplice imboccata iniziale: “stai attento che è tirchio”.
Sembrerà banale ma è tale imbeccata che attiva gli schemi della nostra mente che ci portano a dare maggiore attenzione ad una cosa piuttosto che ad un’altra. Pensa se una semplice “imbeccata”, un piccolo prime è in grado di modificare la tua percezione immagina anni di stereotipi.
Dove vedi la vecchiaia solo come una sorta di peggioramento della vita, e credo che tutto ciò inizi proprio in età giovane, quando c’è il gap più grande tra te e gli anziani. Periodo nel quale chi è più vecchio non solo non sembra capirti ma sembra proprio che cerchi di ostacolare il “nuovo che avanza”.
Insomma tutto ciò ha contribuito alla creazione di un disequilibrio sociale, una bilancia che probabilmente dura da sempre e che nel nostro tempo è particolarmente fuori equilibrio. Direi di continuare queste riflessioni nel nostro Qde e nel Video che uscirà sul nostro canale e che troverai tra qualche giorno qui sotto.
A presto
Genna