Hai mai sentito parlare di meditazione mindfulness? Probabilmente si, una delle teorie contenute al suo interno di inestimabile valore è la differenza tra “modalità del fare e dell’essere”. In pratica noi tendiamo ad essere costantemente indaffarati, non solo fisicamente ma soprattutto mentalmente, diventare maggiormente consapevoli di questi meccanismi può aiutare sia i praticanti di meditazione e sia chi non ha mai provato queste pratiche…

Fare vs Essere

Questa distinzione che puoi approfondire qui è solo un modo per cercare di spiegare che quando stiamo meditando stiamo facendo qualcosa che non si può descrivere con il verbo “fare”, perché in realtà stiamo solo osservando ciò che accade momento per momento. Ciò crea non poca confusione perché la pratica della meditazione è pratica, cioè è qualcosa che fai, però che agisci con una modalità diversa da ciò che fai solitamente. Lo so sembrano supercazzole ma ora mi spiego meglio:

La meditazione consiste nel cercare di osservare ciò che è presente e non ciò che vorremmo ci fosse, perché? Perché solitamente noi non guardiamo le cose per come stanno ma per come ce le aspettiamo. Lo facciamo sempre per risparmiare energia, anche in questo preciso momento non stai leggendo ogni singola lettera ma ti limiti a riconoscere e anticipare ciò che c’è scritto. Te l’ho mostrato molte volte ma questo è il mtoivo per ciu reicsi a lggere anche se è tutto sbagliato 😉

Molte altre volte questa cosa diventa evidente, come quando c’è un errore forte di previsione mentre saliamo o scendiamo le scale, quando ci aspettiamo una cosa e poi ne troviamo un’altra. Insomma siamo talmente immersi nei nostri schemi da non rendercene conto. Questo è tutto sommato un bene per la nostra sopravvivenza ma non sempre e soprattutto questa tendenza, ci rimbabisce lentamente in vari modi.

La prima modalità è che stare sempre a prevedere (a fare mentalmente) drena un sacco di energia nel lungo termine. Paradossalmente è una modalità che nasce per farci risparmiare ed invece rischia di fare l’opposto, come mai? Perché la realtà di cacciatori e raccoglitori in cui si è instaurata tale modalità oggi non è più presente. Non abbiamo bisogno costantemente di chiederci se quella persona dall’altra parte della strada voglia uccidere noi e tutto il nostro villaggio.

Non dobbiamo più essere così pronti a rispondere a minacce. Inoltre tali minacce sono fasulle e la cosa fa si che il nostro sistema nervoso vada “fuori giri”, un po’ come paradossalmente fa più male tirare pugni al vento che darli contro un sacco. Tirarli al vento male ci rovina le articolazioni mentre darli contro un sacco (bene non fa) non le rovina così tanto. Sentire il pericolo dato da una minaccia reale è diverso che continuare ad immaginare minacce che non ci sono.

Top-Down e Bottom-Up

Un modo più semplice (e anche scientifico) di comprendere questa differenza consiste nel parlare della differenza tra “conoscenze top-down e bottom-up” di cui ci siamo occupati in questo episodio intitolato “la mente capovolta”. Immagina un bambino che si approccia per la prima volta a qualcosa di pericoloso, sta per toccare un coltello quando uno dei caregivers gli urla “stai attento o ti ferirai”. Così il bambino interiorizza quella piccola regola, la quale sarà tanto più forte quanto più intensa sarà stata l’esperienza (per molti la più intensa non è tagliarsi ma ricevere le urla).

Solitamente faccio questo esempio con il fuoco ma oggi ho scelto i coltelli. La prossima volta che i bambino vedrà un coltello non dovrà più pensare “chissà cosa succede se lo tocco” ma lo saprà, in poche parole la conoscenza avrà sostituito l’esperienza. L’esperienza viene definita bottom-up, perché va dal basso dei sensi verso l’alto del cervello (non è proprio corretto ma metaforicamente è molto utile). Dopo che l’esperienza è stata interiorizzata si forma una categoria mentale che tende a sostituire la realtà.

Dato che il cervello deve risparmiare energie eviterà di sprecarle per chiedersi “ma quel coltello taglia?” e anteporrà la sua mappa, la sua conoscenza. A furia di collezionare conoscenze tendiamo a restare lontani dai sensi, perdendoci l’essenza di ciò che è realmente presente. Questa sembra una esagerazione ma la psicologia cognitiva ha provato in diversi modi che noi anteponiamo le nostre mappe alla realtà. Per questo cadiamo nei bias, nelle illusioni ottiche, nella costanza della percezione ecc.

Ora, se qualcuno mi avesse detto durante gli anni di università che esiste la possibilità di osservare i propri schemi, ci avrei creduto, ma se mi avesse detto che sarebbe stato possibile “toglierli di mezzo” non ci avrei creduto affatto. Questo è un discorso complicato ma essenzialmente noi abbiamo un sistema che crea continuamente schemi e che si basa su altri schemi, un sistema categoriale che da cerca di dare continuo senso e ordine alla realtà.

Ebbene, alcuni studi hanno dimostrato che è possibile “metterli da parte“, seppur momentaneamente, e questa è una notizia di non poco conto per chi come me ha studiato a fondo tali strutture cognitive. Sono proprio questi studi che mi hanno fatto accelerare l’idea della creazione di una meditazione scientifica, la quale, altro non è che tutto ciò che la ricerca sperimentale sulle pratiche di contemplazione ci hanno detto avere una qualche evidenza.

La meditazione che salva il mondo

Queste riflessioni ci hanno portato a parlare di “meditazione che salva il mondo” perché sembra essere capace di mettere da parte i più dannosi stereotipi. Ovviamente qui sto generalizzando perché una cosa è lo studio ed un’altra la sua applicazione, però le ricerche sono incoraggianti e pare proprio che la pratica della contemplazione sia una sorta di, “passaggio bottom-up ritrovato” in una sorta di reale ritorno ai sensi.

La storia di mettere a parte i pregiudizi per guardare il mondo con occhi innocenti non è solo un concetto filosofico ma è anche un’azione vera e propria che ogni praticante di meditazione svolge quotidianamente. Il che non significa che si veda “la realtà” ma che si cerca di accorgerci di quando le nostre aspettative, le nostre simulazioni, ci allontanano da ciò che percepiamo attraverso i nostri sensi e non attraverso “il pensiero”.

Questo continuo esercizio crea la capacità di restare “nell’essere” ma ci tengo a precisare che tutti questi termini molto filosofici non lo sono affatto, sono concetti pratici che però possono essere espressi in modo poetico per una questioni di limiti del linguaggio. Il nostro caro linguaggio infatti non riesce davvero a descrivere le nostre esperienze, se non attraverso metafore, allegorie e analogie di vario genere.

E tale iato tra linguaggio ed esperienza (analizzato da secoli di filosofia) non è a sua volta qualcosa di metafisico succede semplicemente perché il linguaggio è un sistema di rappresentazione della realtà, uno dei migliori ma non il migliore (spoiler, il migliore è la matematica). Senza contare che tale incapacità di trasferire le nostre esperienze agli altri ha fatto nascere “l’hard problem” della coscienza, insomma sono cose molto complicate se ci si scava abbastanza.

Chi ha praticato la meditazione nei millenni precedenti aveva capito che c’era senz’altro un modo per parlarne (tutta la dottrine buddista e non solo …ne parla) ma aveva compreso che il modo migliore per comprenderlo era farne esperienza diretta attraverso la pratica. Quindi tornando a noi questa distinzione tra “fare ed essere” non è una reale distinzione in categorie di funzionamento ma si tratta di una metafora che risulta essere molto utile, perché per meditare dobbiamo realmente smetterla di “fare” ed iniziare a “essere”.

Traduzione: meno pensiero e più sensazioni

La traduzione in termini molto semplici per chi non ha mai praticato la meditazione è quella tra “pensiero e sensazioni“. Anche questa relazione era già stata catturata dai pensatori del passato, mi piace pensare che in molti ne parlassero per esperienza diretta: tutti sappiamo che se dobbiamo “sentire” (percepire) qualcosa dobbiamo riuscire a mettere da parte “il pensiero”. Ma in pochi si rendono conto che questa situazione è bidirezionale.

In altre parole se “pensi troppo senti meno“, anzi potresti arrivare a non sentire proprio niente, come quando siamo talmente assorti dal nostro pensiero da non sentire cosa ci sta dicendo nostra moglie o il nostro collega sul lavoro. Ecco a cosa serve allenarsi a restare “nell’essere”, ci serve per riuscire a diventare esperti della regolazione tra queste due parti, tra questi due sistemi che ovviamente sono ancora una volta una “categorizzazione arbitraria” ma molto utile.

Questa faccenda l’ho indagata e provata diverse volte, prima con l’ipnosi, la quale si induce proprio focalizzando l’attenzione su un mondo sempre meno sensoriale e sempre più di “pensiero” (o interiore) e con la meditazione, qui puoi trovare similitudini e differenze. Insomma la cosa come al solito è semplice ma non è facile, anche correre è semplice ma farlo regolarmente e in modo progressivo non è facile. Semplice significa che è “spiegato cioè non complicato” non ripiegato su se stesso.

La cosa migliore che si possa fare è ovviamente praticare la meditazione, impresa molto difficile, nel caso tu lo faccia già complimenti, sono certo che ciò che hai ascoltato e letto fino a qui miglioreranno la tua pratica. Se invece non hai mai meditato il mio augurio è che tu possa iniziare ma sappi che questi stessi concetti, queste 7 tendenze, sono presenti nella nostra vita e possiamo rendercene conto anche senza praticare la meditazione.

Essere intenzionali e non automatici, analizzare meno e percepire di più, notare che dentro di noi si formano lotte e imparare a lasciarle andare, vedere i pensieri come eventi mentali e non come oggetti concreti ecc., sono tutte cose che fanno bene a chiunque. Solo che c’è un problema, se non si pratica la meditazione ci si limita ad osservarli in situazioni troppo sporadiche per far si che diventi una sana abitudine.

La presenza è un’abilità come tutte le altre

Imparare ad essere presenti, meno automatici e tutto ciò che hai ascoltato non è una cosa “naturale“. Lo so che nella tradizione si dice che è una roba della “mente naturale”, forse quella di un bambino ma di certo non quella di un adulto. Come ti ho raccontato in questa reaction al video del prof. Antonino Tamburello non è affatto naturale cercare di restare nel momento presente, ci sono ragioni evolutive che ce lo rendono particolarmente ostico.

Le ricerche del prof. Richard Davidson dimostrano che esista una certa linearità nell’apprendimento della presenza. In pratica Davidson è riuscito ad individuare alcuni parametri fisiologici (funzionamento di alcune aree e maggiori connessioni) che vanno di pari passo con le ore di pratica effettuate. Riuscendo a fare comparazioni tra chi aveva appena (si fa per dire) 1000 ore di pratica e chi ne aveva oltre 40000 (definiti “i campioni olimpionici della meditazione” dallo stesso autore).

Questo significa che bisogna passare tutta la vita in meditazione? No, così come nessuno ti inviterebbe ad allenarti 5 ore al giorno per sempre, a meno che tu non sia un atleta o un monaco. Ma ormai tutti sappiamo che una piccola dose di allenamento quotidiano sono in grado di migliorare drasticamente la nostra vita, ed esattamente come per l’allenamento fisico, chi ne trae maggiore beneficio è proprio chi parte da zero. Mentre gli esperti, per salire “di grado” hanno bisogno di maggiore allenamento.

Insomma se non hai mai meditato ti invito a farlo in qualsiasi modo possibile: puoi cercare un corso dalle tue parti, ti consiglio è di frequentare un corso di MBSR Mindfulness Based Stress Reduction. Oppure un corso di Vipassana tradizionale… oppure scaricare la nostra App Gratuita Clarity. Insomma non conta da dove inizi, l’importante è iniziare.

A presto
Genna


Gennaro Romagnoli
Gennaro Romagnoli

Mi chiamo Gennaro Romagnoli e sono uno Psicologo, Psicoterapeuta ed esperto di Meditazione. Autore e divulgatore di PsiNel, il podcast di psicologia più ascoltato in Italia. Se desideri sapere di più clicca qui.