Avete mai provato a farvi il solletico da soli? Ci siete riusciti? Solo una piccolissima percentuale della popolazione ci riesce e non è ancora chiaro se si tratti di un “disturbo” o di un super potere. Sembrerà assurdo a molti ma il motivo per il quale non riusciamo a scatenarci da soli il solletico è lo stesso per il quale, secondo alcuni studi, è sorto il “sentire negli esseri viventi”. Tutto questo ha anche a che fare con la pratica della meditazione… buon ascolto:
Perché sentire ed esserne coscienti
Che un essere vivente abbia bisogno di sentire è abbastanza scontato, se lo immaginiamo come un oggetto meccanico, come un’auto a guida autonoma è ovvio che debba avere dei sensori. Il termine stesso “sensore” ci indica che quell’aggeggio è in grado di rivelare qualcosa che c’è là fuori per adeguare le mappe che guidano l’auto. Tuttavia in questo esempio non c’è alcun bisogno che l’oggetto abbia consapevolezza di ciò che sente, la stessa affermazione potremmo farla per tutti gli animali e anche per noi esseri umani (che ricordo siamo animali).
In questo momento, se state leggendo con attenzione, è possibile che non sentiate alcune parti del vostro corpo. Non sentite il peso del corpo appoggiato sulla sedia (o dove siete seduti) o non sentite il peso del device che state usando per leggere ecc. Cioè noi possiamo fare delle azioni senza essere consapevoli della sensazione, quando riusciamo a farlo? Quando abbiamo bisogno di allocare la nostra attenzione altrove e soprattutto, quando ci è molto familiare una certa azione. In psicologia diciamo che esistono due tipi di comportamenti: quelli controllati e quelli automatici.
Come sappiamo in molti esistono comportamenti squisitamente automatici, come la midriasi (il cambio di adattamento della pupilla alla luce) e molti altri tipicamente biologici. E poi abbiamo automatismi che apprendiamo che impariamo, come quando guidiamo l’automobile senza accorgerci di farlo o potendo fare altre cose (cosa che vi sconsiglio e che sapete se avete letto “Facci Caso”). E’ un tema che si perde nella notte dei tempi e che abbiamo trattato moltissime volte sotto il punto di vista della attività conscia vs l’attività inconscia del nostro “cervello/mente”.
Alla luce di queste informazioni, per quale motivo o meglio per quale vantaggio evolutivo si è sviluppata la capacità di sapere che stiamo sentendo? Attenzione perché non sappiamo se questo sapere sia la coscienza tuttavia gli assomiglia parecchio! Secondo il prof. Giorgio Vallortigara ci serve per distinguere noi stessi dal mondo esterno. Per questo si è sviluppata la “copia efferente” di cui parliamo nella puntata, per distinguere ciò che faccio io verso il mondo rispetto a ciò che il mondo fa su me stesso. Sembra una distinzione banale ma non è così.
L’esempio che fa il prof. è quello del “verme”: se prendiamo un verme e lo tiriamo fuori dal suo habitat e con un dito lo tocchiamo vedremo dei comportamenti di difesa. Il verme inizierà a contrarsi e contorcersi per evitare quel contatto. Dunque come è possibile che durante il proprio movimento autonomo, quando striscia sul terreno, non abbia una reazione simile? La risposta sembra ancora una volta scontata: perché riesce a distinguere tra quando è lui a fare il movimento rispetto a quando qualcuno agisce su di lui.
Il meccanismo della copia efferente o scarica corollaria e la meditazione
Il meccanismo che stiamo descrivendo è stato analizzato diverse volte e in diversi organismi. In pratica quando fai una azione in modo deliberato, come ad esempio spostare un braccio per afferrare un oggetto il tuo cervello invia due messaggi: uno che dice ai muscoli di contrarsi e di muoversi in una certa direzione ed un altro che segnala al tuo corpo (o meglio al tuo sistema sensoriale) che ciò che percepirai lo stai facendo tu! Ora potrà nuovamente sembrare una roba semplice (ed in effetti è un meccanismo semplice) ma di incredibile efficacia.
Questo meccanismo spiega un sacco di cose, tra le quali di nostro estremo interesse spiega come mai esistono due modi diversi di sentire/percepire il proprio corpo: uno quando ci muoviamo attivamente ed un altro quando stiamo fermi e sentiamo il mondo agire su di noi. Il che potrebbe spiegare in modo chiaro come funziona la dissociazione, ad esempio perché in questo momento non ti preoccupi delle sensazioni del tuo corpo mentre leggi. Se di colpo qualcosa raggiungesse il tuo corpo in questo istante interromperebbe la tua attenzione verso la lettura! Al contrario i tuoi movimenti no… o molto meno.
Per anni, qui su Psinel, abbiamo analizzato la meditazione dal punto di vista della ricerca scientifica. Una delle prime ipotesi che avevo avanzato sul suo funzionamento mi era sorta pensando all’importanza, che moltissime forme di psicoterapia, danno alla propriocezione. Cioè alla capacità di percepire il proprio corpo nello spazio. Ero partito dalla semplice assunzione che quando osservi il tuo corpo, senza giudicare e in modo intenzionale, ciò che stai facendo è essenzialmente esplorare la tua propriocezione. La quale ha caratteristiche così peculiari da essere vista come una sorta di “sesto senso“.
Questa intuizione mi era poi stata confermata dagli studi di Daniel Siegel sulla “ipseità”, cioè la sensazione di essere noi stessi. La quale si fonda su ciò che senti e non su ciò che pensi. Puoi approfondire il tema qui ma per brevità ecco un mini riassunto: quando mediti ti rendi conto di un fenomeno che gli psicologi raccontano da sempre, cioè che quella parte di te che chiamiamo “IO” è una sorta di racconto che ci facciamo. Mentre mediti osservi cosa ti passa per la mente e noti (con una certa facilità se pratichi da tempo) che quei discorsi parlano sempre di te.
E’ come se per mantenere coeso il nostro essere si debba costantemente confermarlo con una storia, io sono uno psicologo che vive a Padova ecc. Ma come sappiamo queste informazioni auto-biografiche non sono tutto il nostro essere ma solo una parte, meditando la cosa diventa chiarissima, perché tu puoi sentire te stesso al di là di quelle descrizioni. So che la cosa può suonare come mistica ma ha del tutto senso, perché il nostro pensiero non sono le parole che ci raccontiamo. Gli animali hanno forme molto complesse di pensiero ma non parlano… ad esempio!
Essere se stessi
Tutto questo correla perfettamente con i modelli più recenti di intervento psicologico, i quali non puntano a modificare il modo con il quale ti descrivi ma il modo con il quale ti percepisci. Non puntano a modificare i tuoi contenuti interiori ma puntano a farti cambiare il rapporto che hai con essi. Questi contenuti non sono solo forme mentali ma esistono prove neuroscientifiche che indicano la capacità di dissociare le due cose: si può perdere la memoria auto-biografica e allo stesso tempo si può tranquillamente agire in modo “senziente”.
Un paziente con una amnesia severa continua a saper parlare, capisce cosa gli viene detto, si muove correttamente nello spazio ma non sa “chi è”. Quindi la nostra identità, quel nostro sentire di essere noi stessi non dipende da ciò che ci raccontiamo. O per lo meno non dipende completamente da quel racconto. Anche perché, oltre ad un comprensibile senso di spaesamento, questi soggetti non hanno svarioni psicotici, cioè non iniziano a temere di non essere più se stessi, di aver perso la propria identità. Semplicemente agiscono come una persona un po’ stordita ma non così tanto come ci si aspetterebbe da una persona che perda tali informazioni.
Per questo motivo in molte nostre puntate parlo di una “sensazione di essere te stesso“(link qui sopra) e non di un racconto o di una impressione, sembra la stessa cosa ma siamo su livelli differenti. Torniamo all’esempio dei sensori dell’auto, in questo contesto l’identità auto-biografica è contenuta nella memoria del software, la quale continua a fare confronti tra la propria simulazione interna e la realtà circostante. Usando questa come analogia, la vera capacità di sentire se stessa sta nei sensori e non nelle mappe del navigatore.
Certo queste mappe cambiano in base a ciò che i sensori vedono, ma per l’essere umano la cosa è più complessa. Perché per risparmiare energia continuiamo a vedere “le stese cose” (fissità cognitiva), lo abbiamo visto molte volte come fenomeno, al punto tale che ad un certo punto diventiamo così bravi a prevedere che usiamo pochissimo i sensori e moltissimo il navigatore. Il tema che stiamo trattando, quello della “copia efferente” è una sorta di meccanismo che fa da porta a questi due sistemi, quello sensoriale e quello percettivo, così lo definisce Vallortigara, anche se per me il nome più calzante è il “sistema predittivo”.
Se ci pensiamo bene quando sbagliamo la predizione del famoso scalino quando facciamo una rampa di scale la sensazione è quella della sorpresa, come se venissimo raggiunti dal mondo esterno, ben diversa da quella intenzionale. Cioè la copia efferente è una sorta di previsione balistica su dove andrà a finire il nostro corpo con quelle azioni specifiche. Azione che se prevista male da una sensazione di totale estraneità, molto più simile ad un capogiro che ad una semplice perdita di equilibrio. Per questo riduco l’effetto della copia efferente ad una simiulazione… ma è solo una mia ipotesi.
Ipnosi e meditazione
Quando ho iniziato ad immaginare una “meditazione evidence-based” cioè basta sull’evidenza della ricerca sperimentale, ho iniziato ad analizzarla non solo attraverso gli studi ma anche attraverso la mia esperienza personale. Io sono formato in ipnosi come psicoterapeuta e per anni l’ho utilizzata su me stesso e sui miei pazienti. Quando mi sono avvicinato seriamente alla pratica della meditazione di consapevolezza (Vipassana) ho notato che non si trattava affatto di uno stato modificato di coscienza ma del suo opposto. Non si tratta di una dissociazione ma di una associazione… lascia che mi spieghi meglio.
Hai presente quando sei talmente assorto nei tuoi pensieri da dimenticarti temporaneamente del mondo intorno a te? Ecco, quello è uno stato di trance quotidiana (come la chiamava Erickson e poi Ernest Rossi “everyday common trance“), cioè momenti nei quali entriamo dentro noi stessi e ci allontaniamo dal mondo sensibile che ci circonda. Se hai mai praticato la meditazione sai che quello è uno dei momenti più importanti, nei quali ti accorgi di non essere più presente e ritorni a prestare attenzione alle tue sensazioni.
Tornando all’analogia con l’auto a guida autonoma è come se invece di prestare attenzione ai sensori l’auto iniziasse a guardare solo il navigatore perdendosi la connessione con l’esterno. L’ipnosi dunque si occupa di gestire, per così dire, le mappe che vengono caricate sul computer di bordo o meglio ci consente di accedere al codice sorgente di quel software. La meditazione fa qualcosa di diverso, ci ricollega ai sensori con l’esterno (e anche con l’interno). Ebbene esiste una condizione neurologica che si chiama “visione cieca” (utilizzata da Vallortigara per spiegare la dissociazione tra percezione e sensazione) che fa proprio al caso nostro.
Queste persone hanno occhi e nervi ottici funzionanti ma hanno subito un danno nell’area che elabora gli input visivi. Riescono a fare cose pazzesche, del tipo anche se ammettono di non vedere, se convinti a fare certi gesti li fanno come se vedessero. E’ noto un filmato di un paziente che attraversa un corridoio schivando numerosi oggetti. E’ come se avesse la mappa del posto ma non avesse accesso ai sensori per verificarlo, tecnicamente c’è percezione senza sensazione. E possiamo avere anche fenomeni opposti, ciò era già evidente nelle fenomenologie ipnotiche della dissociazione.
Attraverso l’ipnosi è possibile creare dissociazioni così forti da scollegare questi due sistemi. Dato che la meditazione invece fa qualcosa di (quasi) contrario è plausibile pensare che la pratica meditativa abbia dei benefici poiché è in grado di ripristinare il funzionamento della parte sensibile quando entriamo troppo nel percepito (che nella nostra nomenclatura è la simulazione). Avevo notato questa cosa meditando e te ne avevo parlato in questo episodio del 2016 ma in realtà è un concetto che ho tratto dalla differenza tra ipnosi e pratica meditativa.
Le dimensioni della meditazione e le mie strane ipotesi
Se sei quì per la prima volta mi rendo conto che si tratta di un sacco di cose tutte insieme, ne parliamo letteralmente da anni, praticamente dal 2009 ho iniziato a postare sempre più temi che riguardavano il collegamento tra l’ipnosi e la meditazione. Un giorno praticando ho iniziato a notare che era come se ci fossero dei livelli: il primo è rappresentato dalla sensazione pura, qualcosa di molto simile a quando ti accorgi che qualcosa ti tocca ma senza allarmarti, come una dolce carezza inaspettata. Subito dopo emerge una rappresentazione, che può avere varie forme, come immagini, suoni ecc.
E poi emergono i pensieri riguardo a ciò che è emerso, solitamente sono commenti su ciò che sta accadendo. In mezzo a tutto ciò ci sono dei giudizi, sia di base, come quelli “resto o vado” e sia più complessi come quelli legati alla relazione tra noi e altre persone. “Hai visto come ti guardava Luigi l’altro giorno? Ma cosa vuole quello, la prossima volta gli faccio vedere io” oppure commenti su ciò che stai facendo: “ma questa roba della meditazione, forse sto perdendo tempo? Io non sento niente di particolare”.
Lo scopo della meditazione di consapevolezza è tornare a ciò che senti, cioè al primo livello che ho appena descritto. Che è il livello più sfuggente di tutti se ci pensiamo: mentre i discorsi che fai in testa possono durare anche minuti se non ore, le rappresentazioni mentali di immagini durano molto meno ma anche esse resistono. Al contrario, il sentire dura molto poco perché? Perché manca la copia efferente! Questa ovviamente è una mia ipotesi sulla base di ciò che ti ho appena raccontato. Spero con tutto il cuore che queste parole arrivino a qualche ricercatore così da poter un giorno magari creaci degli studi.
I più esperti avranno notato di certo che avrei potuto utilizzare molti altri termini conosciuti, come “Sè narrativo e Sè esperienziale” della ACT, oppure avrei potuto parlare di conscio ed inconscio… il meccanismo però è sempre lo stesso: c’è una parte che crea contenuti nella nostra testa, la quale adora prevedere invece che sentire (per motivi di economia cognitiva) ed una parte che la sostiene. Il problema è quando pensiamo di essere i contenuti e non l’altra parte, quella che sostiene il tutto!
Per questo ti rompo le scatole da tempo ripetendo che TU non sei i tuoi pensieri, cosa che hanno già detto tutti i mistici del passato ma oggi abbiamo anche diverse prove sperimentali del fatto che le cose stiano così. Tuttavia ci tengo a sottolineare che il rapporto con la “copia efferente” è ancora oscuro da molti punti di vista, soprattutto da quello che ti ho presentato, il tema è super affascinante e voglio raccontartelo rapidamente.
Pensiero, meditazione e copia efferente
Per Vallortigara e altri scienziati è possibile che anche il pensiero stesso abbia una copia efferente, infatti molto spesso veniamo raggiunti per così dire “senza saperlo” da pensieri. A volte siamo noi a generarli direttamente ma la maggior parte delle volte essi ci raggiungono. Che è poi una cosa molto simile al fatto di essere raggiunti da un oggetto esterno, il che genera sensazione oppure agire noi verso l’esterno, copia efferente e quindi azione intenzionale (sono io che faccio qualcosa sul mondo).
Secondo Vallortigara è possibile immaginare che anche il pensiero sia una azione, così come la coscienza si è probabilmente sviluppata come una sorta di reazione esterna al mondo. Una membrana che reagisce agli stimoli, ritraendosi, arrossandosi ecc. una sorta di movimento microscopico che ci aiuta ad organizzarci (qualcosa di simile a ciò che intendeva Wilhelm Reich quando parlava di corazza caratteriale, ad ogni stimolo psicologico corrisponde una risposta anche fisica e muscolare). Se così fosse è possibile immaginare che la consapevolezza metta in moto le nostre membrane.
Quando sei seduto e scansioni il tuo corpo, quindi porti attenzione a specifici distretti del corpo per sentirli è possibile che avvengano micro movimenti in quella zona. Il che potrebbe far pensare quindi che la copia efferente possa arrivare anche in assenza di un movimento vistoso ma in presenza di intenzionalità, cioè l’intenzione (essendo anche in parte anticipazione e quindi simulazione) agirebbe proprio come un’azione predittiva del movimento, attivando la copia efferente.
Oppure in realtà ti sintonizzi con le tue sensazioni, insomma non lo sappiamo ma di certo è un meccanismo che potrebbe darci nuove e preziose intuizioni su come funziona la nostra mente durante la pratica meditativa. E’ possibile che la meditazione possa fungere da reset momentaneo di questa tendenza del corpo a rispondere con micro adattamenti e, esponendoci al nostro mondo interiore vi sia un riassetto delle risposte al mondo.
Se fossero come movimenti potremmo immaginare che una persona sensibile alle emozioni come la rabbia abbia sviluppato una serie di adattamenti fisici a quella emozione che fanno si che ogni volta che ne è esposta reagisca con maggiore forza. E’ come se la sua membrana esterna fosse diventata iper sensibile alla rabbia, meditando quella sensibilità dovrebbe cambiare perché non c’è movimento né giudizio (tentativo di aggiustare con la mente) e quindi un riassetto. Insomma solo ipotesi ma le adoro e spero piacciano anche a te.
A presto
Genna